Salvare Taranto
È l’incubo di molti lavoratori. Il cartellino che non funziona più e non permette l’entrata in ufficio o in fabbrica. Tecnicamente si chiama “messa in libertà”, o meglio dire chiusura dell’azienda, ed è l’esperienza drammatica che stanno vivendo a Taranto i dipendenti dell’Ilva con ricadute su tutti gli stabilimenti italiani controllati dalla famiglia Riva. La decisione di chiudere man mano i siti produttivi arriva dopo l’accusa, da parte della procura di Taranto, per alcuni esponenti della proprietà posti in stato di arresto per aver costituito un’associazione a delinquere finalizzata alla commissione di una serie di reati, che vanno dal disastro ambientale aggravato all’omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, all’avvelenamento di acque e sostanze alimentari.
Un avviso di garanzia è arrivato anche all’attuale presidente della Società, l’ex prefetto di Milano Bruno Ferrante, che tra i primi atti compiuti dopo la nomina aveva provveduto a licenziare un dirigente addetto alle relazioni esterne e accusato di essere al centro di manovre corruttive diffuse, tanto è vero che risultano incriminate altre figure note in campo accademico e politico. L’esito dell’inchiesta penale era previsto, atteso da tempo, e probabilmente non è per nulla ultimato. Così come è stata evidente l’intenzione del governo di arrivare alla concessione di una nuova autorizzazione ambientale per scongiurare la chiusura del più grande polo siderurgico in Europa. L’azione della magistratura colpisce con questi ultimi provvedimenti l’attività svolta comunque dall’Ilva nelle aree a caldo sottoposte a sequestro da luglio 2012: quanto prodotto deve restare invenduto e a disposizione dei giudici come corpo del reato.
Il timore di un territorio abbandonato dall’industria e destinato a restare pesantemente inquinato, per mancanza di investimenti, conferma i timori di chi vede nel conflitto evidente tra i poteri dello Stato e le tesi dell’azienda che si ritiene perseguitata, un prezzo insostenibile che finisce per colpire solo chi vive del reddito del proprio lavoro e non può fuggire altrove. L’unica alternativa resta, secondo i maggiori sindacati, quella dell’occupazione intesa a mantenere in vita la fonte della propria occupazione. Il clima di confusione rischia di alimentare il deflagrare di conflitti incontrollabili scatenando una lotta tra poveri, oppure, come è stato tentato più volte, tra cittadini e lavoratori come se non vivessero nella stessa barca che sta per affondare.
La soluzione non può che arrivare da una forte decisione politica a livello nazionale senza dimenticare i lunghi anni di attesa e di omissioni che hanno minato il futuro del lavoro e le condizioni di vita di un’intera popolazione. L’appuntamento tra parti sociali, enti locali ed esecutivo Monti è previsto a Roma per il 29 novembre. Non si può non ricordare che mentre, secondo l’accusa dei giudici di Taranto, si compivano reati di disastro ambientale, il centro studi dell’Ilva promuoveva conferenze sulla sindrome Nimby, l’accusa ricorrente nei confronti di comitati e associazioni cittadine di non aprirsi all’innovazione e al progresso per curare il proprio orticello.
In qualche modo si può dire che l'intera nazione è chiamata ad adottare una città come Taranto, sottoposta a tensioni tali che rischiano di farla esplodere, mentre, come recita uno striscione esibito in tante manifestazioni, le persone chiedono solo di «scoppiare di salute».
Resta sullo sfondo il futuro della siderurgia in Europa. In queste ore anche la Francia sta vivendo con trepidazione lo scontro tra il ministro del Rilancio produttivo e il gigante indiano Mittal, che ha deciso di chiudere la produzione (150 siti e 22 mila dipendenti) nel Paese transalpino. Il governo francese ha espresso l’intenzione di arrivare ad una rinazionalizzazione dell’intero comparto da sottrarre alle strategie delle compagnie transnazionali, suscitando il consenso di alcuni sindacati e il timore di altre sigle che, conoscendo la sproporzione tra i poteri in gioco, temono per il futuro di moltissimi lavoratori. In Italia l’urgenza è arrivata ad un punto estremo, ma servirebbe a comprendere meglio la situazione attuale una seria riflessione sull’intera vicenda a partire dalla cessione, in tempi non remoti, nel 1995, degli stabilimenti Ilva da parte dell’Italsider controllato dallo Stato.