Salvare la sanità, bene comune

Cambiare prospettiva verso la nostra opera pubblica più grande. Un dibattito necessario

La pandemia da coronavirus, assieme all’eroicità del mondo della sanità, ha fatto emergere il problema del definanziamento della salute pubblica. In Europa lottiamo con i francesi per il secondo posto nella produzione manifatturiera, dopo i tedeschi, ma abbiamo un rapporto del 6,6% tra spesa sanitaria e Pil. Inferiore a Germania (9,6%), Francia (9,5%), Svezia (9,1%), Olanda (8,2%) e Regno Unito (7,6%). Meglio della Grecia (4,7%), stremata dalle misure di austerità.

L’ultimo rapporto (Oasi 2019) dell’università Bocconi afferma che con 119 miliardi di spesa nel 2018 e 149 milioni di disavanzo «il Sistema sanitario nazionale ha messo in sicurezza i propri conti». Per alcuni, si tratterebbe di un esempio positivo di spesa pubblica, dato che siamo ancora ai primi posti nella classifica internazionale Bloomberg sull’efficacia del Sistema sanitario, pur avendo un rapporto di 3,2 posti letto per mille abitanti (5 la media europea). Secondo l’Osservatorio sui conti pubblici italiani, diretto da Carlo Cottarelli, «alla drastica correzione dei disavanzi non è seguito un peggioramento dei servizi offerti al cittadino; sono stati eliminati molti sprechi, specie nelle regioni meridionali». Sempre secondo tale fonte, negli ultimi anni, la spesa in sanità è aumentata anche se non è stata sufficiente a tenere il passo con l’inflazione, per cui «in termini reali si registra un calo che l’ha riportata attorno ai valori del 2004».

Anche il rapporto della Bocconi si pone la domanda sul futuro del Ssn pubblico, dato che le famiglie cacciano dalle loro tasche, oltre le spese coperte da polizze e fondi collettivi, altri 35,7 miliardi di euro all’anno per cure private. Si tratta di una spesa diversa dalla compartecipazione dei pazienti, eccetto le esenzioni, prevista dal Servizio sanitario nazionale, assicurato anche da soggetti privati accreditati, come il Gemelli di Roma o il San Raffaele a Milano, tenuti a rispettare i princìpi di “universalità, uguaglianza ed equità”.

Evitare un disastro sociale

A giugno 2019, Nino Cartabellotta, presidente del Gimbe (Gruppo italiano per la medicina basata sulle evidenze), ha lanciato l’ennesimo appello per impedire «la perdita di un Servizio sanitario pubblico, equo e universalistico, che porterà a un disastro sociale ed economico senza precedenti».

Dal 2010 ad oggi, secondo Gimbe, sono stati «sottratti al Ssn circa 37 miliardi di euro». Per “mettere in sicurezza” le risorse è necessario definire «una soglia minima del rapporto spesa sanitaria/Pil e un incremento percentuale annuo del fabbisogno sanitario nazionale, pari almeno al doppio dell’inflazione».

Il governo Conte 2 aveva promesso un patto per la salute, tenendo presente le competenze regionali in materia, con 10 miliardi di euro da investire fino al 2023, con l’abolizione del superticket e la stabilizzazione di oltre 30 mila precari tra medici, infermieri e ricercatori. Solo l’annuncio ha provocato polemiche sulle risorse da recuperare. È piombato, poi, l’assedio da Covid-19 e il governo ha disposto l’assunzione immediata di 20 mila operatori sanitari (circa 5 mila medici, 10 mila infermieri e 5 mila operatori sociosanitari) con contratti a termine di 2 anni. Tanti ma, secondo i dati del “conto annuale della Ragioneria dello Stato 2017”, a partire dal 2009 la sanità pubblica ha perso oltre 46.500 addetti. Si è seguita la logica di una progressiva esternalizzazione con reparti coperti da personale a partita Iva o dipendenti da cooperative. Sono stati ridotti anche i posti letto (70 mila negli ultimi 10 anni). Anche per i casi acuti e la terapia intensiva: una contrazione da 575 a 275 posti ogni 100 mila abitanti, secondo l’Oms. Con differenze marcate tra le regioni.

Sarà inevitabile un serio dibattito pubblico sulle priorità  di bilancio nazionale nel confronto non rimandabile con l’Unione europea. Certo, l’incremento delle risorse non si trasforma automaticamente in maggiori servizi. Bisogna combattere la corruzione in sanità (la “pandemia ignorata”) che erode 500 miliardi di dollari l’anno nel mondo. Un sistema pervaso dalle mafie e oliato ai piani alti, come dimostra, negli Usa, la sanzione di 572 milioni di dollari inflitta nel 2019, in Oklahoma, a una grande società farmaceutica.

La salute non è un supermarket

Per capire quanto è accaduto nell’ultimo ventennio, Gavino Maciocco, dell’università di Firenze, coordinatore di www. saluteinternazionale.info, invita a leggere l’analisi di Whitehead, Dahlgren ed Evans, pubblicata nel 2001 sulla rivista medica Lancet: «Il “modello globale” di sistema sanitario (basato sul mercato, ndr) è stato sostenuto dalla Banca mondiale per promuovere la privatizzazione dei servizi e aumentare il finanziamento privato attraverso il pagamento diretto delle prestazioni». Una strategia «semplice e a suo modo geniale. Un mix di interminabili tempi di attesa (conseguenza della scarsità dell’offerta pubblica) e di ticket particolarmente esosi. L’obiettivo di far migrare tanti utenti dai servizi pubblici al settore privato a pagamento ha indotto l’effetto collaterale di costringere le fasce più deboli a rinunciare alle prestazioni, o a indebitarsi».

Sconti fiscali e contributivi hanno incentivato le assicurazioni private che, per chi può, fanno “saltare la fila” per avere un accertamento o un esame urgente, vero o presunto. È l’esito di un disegno opposto a quello dei legislatori del 1978, come l’allora ministra alla Sanità Tina Anselmi, che, pur in tempi di terrorismo e trame occulte, hanno istituito il Servizio sanitario nazionale in linea all’articolo 32 della Costituzione del 1948: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti».

La tutela della salute, ad ogni modo, non è assimilabile a un supermercato dedicato ai casi acuti, accessibile solo a chi ha i soldi per entrare. Occorre un piano capillare di cure primarie dedicato alle malattie croniche (cardiopatie, tumori, diabete, malattie respiratorie croniche…) con strutture come le “case della salute” accessibili a tutti sul territorio. È la prospettiva assunta dall’associazione “Diritto fondamentale” promossa a fine 2019 da Rosi Bindi e Livia Turco, già ministre della Salute, che segnalano, tra l’altro,  la necessità di investire 32 miliardi di euro solo per mettere in sicurezza le strutture sanitarie in pericolo da rischio sismico e idrogeologico.

La nomina di Mariana Mazzucato come consulente del governo per l’emergenza coronavirus, sembra un segnale che va in questa direzione. L’economista rappresenta, a livello internazionale, la linea più convinta nel sostenere investimenti pubblici massicci «in tutto quello, come scuola e ricerca, che può garantire e strutturare una crescita di lungo periodo». Particolarmente nella sanità dove, ad esempio, gli investimenti privati non sono attratti da farmaci per «malattie che non creano mercati con potenzialità di crescita» di profitti. Siamo davanti a un possibile capovolgimento di prospettiva. Anche perché, sottolinea Mazzucato, bisogna evitare di ripetere l’errore compiuto dopo la crisi del 2008 e cioè non aver riformato quel sistema finanziario che vuol continuare a comandare. Sarà una lotta dura.

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