Saltykov-Ščedrin. La verità dell’uomo
I grandi romanzieri russi dell’Ottocento ci hanno reso familiare il sistema sociale dell’epoca, basato sulla servitù della gleba e sui proprietari terrieri. Di questi ultimi facevano parte, tra l’altro, Turgenev e Tolstoj. A cambiare tale sistema dal 1861 in poi, fu lo zar Alessandro II, autore di grandi riforme che interessarono tutti gli aspetti della vita russa, anche se dopo il 1866 questa fase di apertura subì limitazioni. Una di tali riforme, alquanto controversa, riguardò appunto l’emancipazione di circa quaranta milioni di contadini da 50 mila possidenti. I quali, indennizzati attraverso obbligazioni di Stato, avrebbero dovuto gestire le loro tenute senza i servi, continuando anche ad alimentare la classe dirigente del Paese. Quanto agli ex servi, quanti di loro aspiravano all’usufrutto delle terre dovevano pagare ai proprietari lunghissimi canoni, aggravati dagli interessi dovuti allo Stato prestatore di denaro.
Il governo sperava che i contadini avrebbero prodotto raccolti sufficienti sia per il loro consumo che per l’esportazione, contribuendo così a ridurre il notevole debito estero della Russia. Purtroppo a tali aspettative non seguì la realtà dei fatti. Le commissioni locali preposte al cambiamento, tutte in mano ai proprietari terrieri, agirono quasi sempre a proprio vantaggio, limitando la libertà degli ex servi. I contadini rimasero in arretrato con i pagamenti al governo sia perché le terre ricevute erano le meno produttive e sia perché non erano stati previsti finanziamenti per acquisire macchine agricole che sostituissero i metodi arcaici di coltivazione. Senza contare che molti possidenti, per evitare i problemi di gestione, preferivano vendere le loro terre. Si aggiungano le lentezze dell’apparato burocratico, composto dalla nobiltà, e il precipitare del valore delle obbligazioni emesse dallo Stato, in quanto legato ai pagamenti dei contadini emancipati, e si comprende come né questi né i loro vecchi padroni rimanessero soddisfatti dalla riforma. Non mancarono, infatti, disordini che furono repressi con violenza.
Fa parte della costellazione di grandi autori russi Michail E. Saltykov-Ščedrin, ancora poco noto in Italia ma considerato il degno continuatore di Gogol’ per quanto riguarda la letteratura satirica: nessuno, infatti, meglio di lui che proveniva dalla piccola nobiltà campagnola, ha saputo descrivere le miserie, la grettezza e l’ipocrisia di quella casta, le condizioni inumane in cui vivevano i loro sottoposti e, in genere, la decadenza di un mondo di provincia basato sullo sfruttamento dell’uomo da parte del proprio simile sotto l’ombrello protettivo di una religione ridotta a puro rito.
Michail nacque nel 1826 in uno sperduto villaggio del distretto di Tver’ (oggi Kalinin), sesto di sette figli, da una famiglia che aveva sotto di sé diverse migliaia di servi. Studiò a Mosca nelle scuole dei nobili, fu impiegato a San Pietroburgo al Ministero della guerra e fece parte dell’intellettualità liberale progressista. Ma accusato di propaganda sovversiva, nel 1848 fu mandato al confino a Vjatka, dove lavorò come copista negli uffici del governatorato fino al 1856. La punizione gli permise tuttavia di conoscere a fondo l’ingranaggio della burocrazia statale, oggetto poi di spietata critica nelle successive opere letterarie.
Riammesso a San Pietroburgo, si sposò e venne nominato vicegovernatore prima del distretto di Rjazan, poi di Tver’, sede nella quale apprese il decreto imperiale che liberava i servi della gleba. Il suo zelo nel denunciare la parzialità con cui agivano coloro che avrebbero dovuto far applicare la riforma suscitò tali polemiche da costringerlo a dimettersi. Collaboratore della rivista Il contemporaneo e dedito alla scrittura di racconti, nel 1864 riassunse il servizio, che lasciò definitivamente nel 1868. Fu redattore e in seguito direttore della rivista Gli annali patrii fino alla soppressione nel 1884. Senza smentire il suo spirito polemico pubblicò anche una serie di fortunati romanzi, senza trascurare il genere della fiaba.
Tipico di questo autore è la denuncia sociale e morale della Russia del suo tempo che, contraddicendo la cruda realtà, si atteggiava a Paese evoluto e moderno. Fuori questione però era l’attaccamento alla sua patria, come rileva il commento fatto dopo un viaggio all’estero: «Da noi non si sta così bene, eppure è meglio. È meglio perché si soffre di più. Questa è la particolare legge dell’amore».
«La tragedia e la satira sono sorelle e vanno di pari passo. Tutte e due prese insieme si chiamano verità». Questa sentenza di Dostoevskij è quanto mai appropriata al capolavoro di Saltykov-Ščedrin: I signori Golovlëv, romanzo del 1880 dove aleggia un senso tragico di morte. Storia della decadenza di una famiglia della piccola nobiltà terriera dominata dall’avidità e abbrutita dall’ozio e dall’alcol, dove tutti si odiano, è al tempo stesso un’indagine acuta dell’ambiente teatrale e militare, e della burocrazia civile e penale nello stato zarista. Nella autoritaria e dispotica matriarca Arina Petrovna l’autore rappresenta la propria madre con la quale i rapporti erano stati sempre difficili. Un personaggio simile figura anche nell’altro notevole romanzo completato poco prima della morte nel 1889: Fatti d’altri tempi nel distretto di Posechon’je, nel quale lo scrittore rievoca gli anni della sua infanzia nella campagna paterna a nord di Mosca, ironicamente mitizzati come “il buon tempo antico”.
In entrambi i romanzi, pubblicati in anni recenti da Quodlibet, Saltykov-Ščedrin svela le magagne di una società ormai al tramonto – quella dei signorotti locali –, che si trascina nella ripetitività di visite reciproche, ricevimenti, matrimoni combinati, nell’accumulare o nel dissipare sostanze, quando a rovinarli non sono invece i loro stessi amministratori; e ciò in mezzo a una profusione di servi adibiti a mille lavori inutili, mal nutriti e ridotti a dormire ammucchiati su stuoie malgrado i grandi spazi della casa padronale. Quanto ai contadini, del tutto privi di istruzione, sono obbligati a sfibranti corvées per consentire ai proprietari la loro vuota esistenza. Non mancano in questo quadro le ingiuste e crudeli punizioni e neppure i suicidi degli elementi più deboli per sottrarsi ad un regime così bollato dallo stesso scrittore: «Chi crederebbe che c’era un tempo in cui tutto questo miscuglio d’avidità, di menzogna, d’arbitrio e d’assurda crudeltà da un lato, d’abbattimento sino alla perdita d’ogni parvenza umana dall’altro, chi crederebbe che c’era un tempo in cui tutto questo veniva chiamato… vita?».
Mentre in Turgenev la natura ha grande rilievo e attenua con la sua bellezza questa negatività, in Saltykov-Ščedrin essa è presente per quel tanto da suggerire l’ambientazione: così, sperdute in posti fuori mano fra boschi di conifere e paludi, le tenute di questi nobili decaduti sono spesso così vaste da renderne impossibile la coltivazione; brutte, scomode e a un solo piano, le case padronali sono circondate dal villaggetto dei contadini in modo da poterli meglio sorvegliare. Tutto l’interesse dello scrittore va invece allo scavo psicologico dei personaggi, sempre magistralmente delineati nei loro caratteri umani.
Leggere Saltykov-Ščedrin non fa solo rivivere un periodo della società russa, ma è fonte di riflessione sulla verità dell’uomo, sempre uguale a sé stesso nelle sue pulsioni al bene come al male, pur nel mutare di epoche e costumi. E per questo mantiene una sua bruciante attualità.