Salario minimo, una questione di dignità
Il lavoro va pagato secondo giustizia. Per questo motivo l’Unione europea ha adottato la direttiva sul salario minimo in base alla quale i livelli minimi dei salari – definiti per legge o tramite un rinvio ad alcuni contratti collettivi (Ccnl) – devono essere definiti e periodicamente aggiornati grazie a una procedura di coinvolgimento delle parti sociali.
La direttiva europea salva ovviamente la competenza dei singoli Stati membri nel definire i livelli. In Italia un recente studio del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e lavoro) ha fatto emergere che, al netto di agricoltura e lavoro domestico, ben 207 contratti collettivi firmati da Cgil, Cisl e Uil coprono 13.366.176 lavoratori dipendenti del settore privato.
Altri 687 Ccnl firmati da soggetti diversi dai 3 principali sindacati riguardano 474.755 lavoratori. Restano ben 689.355 dipendenti, i cui datori non hanno risposto.
Con oltre il 90% dei dipendenti del privato così coperti, quindi, è necessario obbligare gli altri contratti collettivi a garantire almeno i minimi dei contratti firmati da questi sindacati, che di fatto sono i maggiormente rappresentativi.
Si pone tendenzialmente su tale linea il Pd, orientato a chiedere una legge che riconosce il ruolo centrale del sindacato per contrastare il lavoro povero che non è legato, soltanto, al salario, ma a tutto il fenomeno del sommerso o ad altre derive come il part time involontario, che coinvolge tante donne.
Per il governo Meloni la soluzione non è l’introduzione di un salario minimo legale e pare non voler rispondere alla direttiva.
Al contrario il M5S propone l’altra opzione: una soglia fissata per legge (9 euro lordi) uguale per tutti. In tal modo si accorcerebbero i tempi per l’approvazione della misura, ma si rischia di consegnare troppo potere ai governi di turno, che, sinceramente, non sempre hanno scommesso su una crescita dei redditi e dei salari, e tanto meno lo faranno ora.
Secondo i dati raccolti dai Caf delle Acli emerge che metà delle donne sotto i 35 anni hanno un reddito basso o a rischio povertà in caso di eventi comuni della vita come la malattia di un parente, il trauma del divorzio o la nascita di un figlio. Quasi una mamma su due, con figli minori di 6 anni, non lavora o smette di lavorare.
L’Ocse dimostra che siamo gli unici in Europa dove nei 30 anni dal 1990 al 2020 i salari medi sono calati, mentre in Francia e Germania sono saliti almeno del 30%.
Per risolvere queste condizioni particolarmente inique si dovrebbe e potrebbe quindi obbligare tutti i datori di lavoro ad applicare i minimi dei contratti collettivi sottoscritti dai sindacati più rappresentativi. Un vincolo da estendere a tutte le catene di produzione, incluse le società partecipate dalla Pubblica amministrazione e tutto l’indotto delle aziende ad essa collegate.
Accade non di rado, infatti, che sia proprio il soggetto pubblico a non riconosce i costi degli adeguamenti contrattuali ai propri fornitori con il meccanismo del “massimo ribasso”. Cioè si affidano, senza criteri di equità, alcuni servizi a società esterne solo in base al prezzo più basso, finendo per scaricare quanto risparmiato dallo Stato sulle paghe dei lavoratori meno tutelati.
Esistono comunque in Italia alcuni nodi irrisolti per imporre il rispetto dei Ccnl. In particolare non esiste, per vari motivi, una norma sulla registrazione delle organizzazioni sindacali così come previsto dall’articolo 39 della Costituzione. Normare però, potrebbe mettere i sindacati in una posizione di minore autonomia rispetto alle maggioranze politiche.
Si potrebbe rimediare a tale mancanza decidendo allora di limitarsi per legge ad attribuire ad una commissione da istituire presso il Cnel, insieme alle parti sociali, il compito di attivare una modalità di registrazione con la quale formalizzare i criteri e le procedure di conteggio della maggiore rappresentatività.
Nel frattempo sarebbe possibile e necessario agire subito per sperimentare, nei settori più a rischio, dei minimi salariali con riferimento ai contratti migliori.
Inoltre è importante, anche per sostenere una migliore definizione dei salari minimi per ogni categoria, poter giungere ad individuare un indice in grado di misurare “l’esistenza libera e dignitosa” che una retribuzione, secondo l’articolo 36 della Costituzione, è chiamata a garantire.
È poi inaccettabile l’eccessivo ritardo con cui si procede al rinnovo dei contratti collettivi e al conseguente rialzo delle retribuzioni minime. Una soluzione è applicare, solo nei casi di forti ritardi, dei meccanismi automatici di aumento dei salari in base all’andamento dei prezzi (cosiddetta scala mobile).
In Italia esistono notevoli e crescenti diseguaglianze. Necessita, perciò, introdurre anche una soglia di “guadagno massimo consentito”. L’eccessiva destinazione di ricchezza a favore di tanti manager non è giustificata, specie pensando a situazioni dove le loro buone uscita sono state 10 mila volte quelle di un lavoratore. Così come tanta ricchezza legata a pratiche speculatorie ed elusive delle società transnazionali di fatto si appropria di una ricchezza creata che risulta sovente esagerata e depaupera le condizioni del lavoro e spesso la solidità di molte imprese.
Nonostante tante aziende fondino la loro eccellenza sulla qualità del lavoro, il nostro Paese deve contrastare molte situazioni in cui l’allargarsi della povertà in troppe famiglie è indirettamente causata anche da una sempre più eccessiva disparità.
Infine, ma non ultimo, occorre tornare a investire sull’educazione nella scuola e riconoscere un ruolo centrale e accessibile alla formazione professionale. E con essa l’apprendistato, di 1° livello o di alta formazione, deve essere realmente l’alternativa a troppa precarietà che mina la dignità della persona.