Salamov, il destino di poeta

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Varlam Salamov (1907-1982) è stato un uomo, e uno scrittore, estremo. Nelle più feroci persecuzioni staliniane è sopravvissuto miracolosamente – casualmente, avrebbe detto – a stenti inenarrabili, per testimoniare-raccontare, raggiungendo un altro risultato estremo: quello della narrazione indistinguibile dal documento. Dopo quell’esperienza di annientamento S ? alamov affermava che inventare è immorale. E chi ha letto I racconti della Kolyma, cristalli raggelati e raggelanti (anche per il clima di quel gulag costantemente a cinquanta sotto zero per quasi tutto l’anno) sa bene che dopo la Kolyma, come dopo Auschwitz e Hiroshima, ogni artista, come ogni uomo, è chiamato a una ridefinizione integrale, a una rottura, a una conversione (D. Capuano); perché non c’è lì solo l’orrore, ma il confronto, ancor più insostenibile dell’orrore, tra la rettitudine dell’uomo-artista che non cede e l’enorme maggioranza delle persone che si persuade di giorno in giorno, in modo sempre più netto, che si può vivere senza carne, senza zucchero, senza vestiti, senza scarpe, ma anche senza onore, senza coscienza, senza amore, senza dovere. Tutto viene messo a nudo, ma l’ultimo denudamento è terribile. Confronto ancor più acuito dal fatto che quell’enorme maggioranza e S?alamov ugualmente si convincevano, dice, che la morte non è affatto peggiore della vita, e non temevano né l’una né l’altra. In tal modo, per S?alamov vita e letteratura sono diventate un unico destino, e non nella sola prosa dei racconti, ma anche nei versi scritti dall’età matura (nel lager era proibito scriverne) fino alla morte, anch’essi un destino, non un mestiere . Li raccoglie ora antologicamente con il titolo Il destino di poeta, per l’editrice La Casa di Matriona, la slavista Angela D. Siclari, con la premessa di un limpido saggio introduttivo e una riflessione dell’autore sulla propria poesia. In essa torna a scorrere l’acqua cristallina della coscienza di ?alamov, retta fino all’intransigenza e alla solitudine, con la rottura di rapporti affettivi e amicali, familiari e culturali, che può apparire ed è eccessiva, ma fa parte appunto di quel destino di paradossale e parossistica testimonianza, e di un’esigenza di perfezionamento morale quasi feroce e impietosa. La vera compagna-confidente di S?alamov è stata la natura: Io, che ho passato tanti anni faccia a faccia con la natura, con la pietra, con le nuvole, con l’erba, ho cercato di esprimere i loro sentimenti, i loro pensieri nel linguaggio dell’uomo, ho cercato di tradurre nella lingua russa la lingua dell’erba e della pietra. (…) La natura è straordinariamente connessa con l’anima dell’uomo (…). Non c’è nella natura un fenomeno che non corrisponda a un determinato momento della vita spirituale, morale, sociale, fisica, dell’uomo. Per questo egli può dire: Ogni mattina odo/ La voce di Dio-creatore, e farsi dettare dalla natura questi spettacolari (dello spettacolo dell’anima) versi: Mi rifletterebbe là/ Lo specchio distorto di un ruscello,/ Affinché a tutta la potente forza boschiva/ Fino alla tomba io sia ubbidiente. S ? alamov è, dopo Pasternak, il più grande poeta russo della natura nel XX secolo. Si resta attoniti, noi smemorati e attossicati dal consumismo anche culturale, a leggere questa descrizione di un mughetto rosa: Con l’occhio, asperso di sangue,/ Guarda in faccia il tramonto./ E noi dinanzi a lui impallidiamo/ E di qualcosa ci sentiamo colpevoli.// Come se non avessimo vissuto come conviene,/ Se non avessimo letto i libri dovuti./ E solo nei fiori del cimitero/ Avessimo attinto la verità.// E noi baciamo i petali/ E su qualcosa giuriamo./ Sciocchezze! – ci diranno -/ Noi sorrideremo in silenzio. Chi sente-scrive così ha una familiarità con Dio, maturata attraverso le sopraddette privazioni: Ma la via che va a Dio/ È da sempre una sola:/ Per remote carceri/ Essa procede. E può impiparsi del destino senza arroganza: Sia pure io deriso/ E al rogo dannato,/ Sparsa sia la mia polvere/ Al vento dei monti. // Non v’è sorte più dolce,/ Fine più ambita,/ Della cenere che bussa/ ai cuori degli uomini. Senza arroganza perché senza più contesa con la storia, Avendo tacitato il mondo: Cos’è il canto? – È il silenzio stesso; E sopravvivere si può tra i ghiacci,/ Ed essere più prodigioso di altri,/ Ma allora, allora, allora soltanto,/ Quando anche la vita sarà come un canto. Vorrei continuare a citare alla distesa.Ma preferisco offrire al lettore tre perle intere (vedi box), di quelle che, dice Keats, sono a joy for ever. Così io dunque vado – A un passo dalla morte. La mia vita porto In una busta azzurra Questa lettera da tempo, Dall’autunno, è pronta. In essa c’è in tutto una sola Breve parola. Forse proprio per questo Non muoio, Perché per questa lettera L’indirizzo non so. Cortecce di betulla i manoscritti, Le pietre sono minute. Lettere grandi Sulla riva del fiume. Io non ho bisogno di carta. I boschi ne fanno le veci. Essi non temono l’umidità: Lagrime, piogge, rugiada. L’albero custodisce le righe: Un giallo intaglio deciso, Inondato dal chiaro succo Di viscose lagrime roventi. Ecco nascosto per bene Il deposito del mio materiale, Dagli uccelli dimenticato, Celato alle fiere. Mi son posto un mero fine: Come cascata, di foglie frusciare. Sia pure in parte invano, A casaccio e senza pro. Mi sono dato questo fine: Di frusciare senza posa, Qual bufera glaciale frusciare, Canzoni glaciali cantare. Una via di carta ho imboccato, Come cascata di foglie frusciando, Cauto e intrepido, Facendomi per gli uomini giardino. E il dizionarietto degli accenti Ho sempre sottomano, Non per dire parole Fruscia la mia acqua

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