Sai dove siamo? Nel seno del Padre
Nel 2003, in una serie di conversazioni sull’unione con Dio, Chiara Lubich ha ampiamente usato la terminologia esperienziale. Ha detto che l’unione con Dio “si sente”, così come “si sente” l’unità tra di noi e quindi la presenza di Gesù in mezzo: “La mia impressione – scriveva – è che tutti noi abbiamo sperimentato qualcosa (si sente) perché l’Ideale è ascetica e mistica (v. Gesù in mezzo)”1. In questa affermazione si può già notare la stretta relazione che ella avverte tra sperimentare e mistica, intesa come percezione dell’unione con Dio e della presenza di Gesù in mezzo a quanti sono uniti nel suo nome (cf. Mt 18, 20).
Già molti anni prima, alludendo alla propria “esperienza”, scriveva: “Coloro che sinceramente ti amano, ti sentono spesso, Signore (…) e questa sensazione commuove l’anima come toccasse ogni volta sul vivo”2.
Il linguaggio dell’esperienza è presente, fin dai primi tempi, lungo tutta la storia del Movimento dei Focolari. “Fare esperienza”, “raccontare le esperienze” sono espressioni ricorrenti, che ricordano e rendono particolarmente attuale il modo di vivere dei primi cristiani3. Esse stanno a indicare che il cristianesimo è Vangelo vissuto, realtà che coinvolge la persona in tutta la sua interezza. L’impiego comune del linguaggio esperienziale mostra, in modo particolare, che nell’Opera di Maria la comune, ordinaria, semplice, mistica cristiana, ossia l’autentica vita di fede, è “sentita” come vera, coinvolge in prima persona ed è, poco o tanto, “esperienza” comune a tutti i suoi membri, a cominciare dai bambini, i “gen quattro”. Il carisma dell’unità rende fruibile, in un modo che gli è caratteristico, la vita del Vangelo, fa gustare la presenza di Gesù in mezzo alla comunità con i frutti ad essa legata, introduce in un rapporto personale con il Padre, con lo Spirito Santo, con Maria.
All’origine di questo carisma e della modalità particolare di vivere l’esperienza cristiana a cui esso introduce, vi è l’esperienza mistica della fondatrice, Chiara Lubich, alla quale vorremmo riferirci in questo scritto. Ma prima converrà richiamare brevemente il concetto di esperienza e accennare alla sua valenza nella storia della spiritualità cristiana.
Vita cristiana ed esperienza mistica
Con il termine “esperienza” si indica abitualmente una particolare modalità di conoscenza, quella che più adeguatamente si rapporta con la Verità. Dal verbo latino ex-pèrior, letteralmente significa passare attraverso, penetrare: accertarsi viaggiando, recandosi sul posto. Si arriva così a conoscere una realtà, una situazione, qualcosa fino allora sconosciuta e nascosta nelle sue molteplici possibilità.
Il significato del termine oscilla tra conoscenza pratica, sperimentale, acquisita attraverso ripetizione di azioni, propria della fenomenologia e della scienza (= “esperto”, “perito”), e conoscenza in senso personalistico: un complesso di eventi vissuti che arricchiscono interiormente e danno il senso dell’esistenza (= “saggio”, “sapiente”). Secondo questo ultimo ambito semantico l’esperienza è una modalità di conoscenza che investe non solo l’intelletto, ma tutte le facoltà della persona, superando così una riduzione empirica o intellettualistica o puramente logica del rapporto con la verità; una via diretta, immediata alla pienezza della conoscenza; un movimento che porta l’intera persona dentro una realtà fino a dimorarvi. È una conoscenza della verità nella sua integralità, fatta dalla persona tutta intera.
Essa si qualifica in base al suo oggetto. Vi è, ad esempio, un’esperienza umana: estetica, della percezione della natura, di particolari sentimenti, per esempio della maternità, l’esperienza del silenzio, dell’infinito. Questa esperienza umana si qualifica come religiosa quando essa ha come oggetto l’Assoluto percepito come sacro, avvolgente incondizionatamente e totalmente la persona e tutta la natura, come capace di darle in Sé stesso unità e senso.
Alcuni elementi caratteristici
Quando l’esperienza ha come oggetto Cristo Gesù e il mistero trinitario che egli rivela e comunica nella comunità ecclesiale, essa si qualifica come cristiana, e presenta elementi caratteristici. Ne richiamo i principali.
È cristiana, nel senso forte della parola, perché la persona trova in Cristo Gesù il proprio io più profondo, frutto della koinonia con lui (cf. 1 Cor 1, 9): “Non sono più io che vivo” (Gal 2, 20).
È teologale perché esperienza di Dio come Padre ed esperienza della propria figliolanza. Essa trova in Cristo l’unico mediatore: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1, 18).
È spirituale non perché riguarda soltanto il nostro spirito (come ogni esperienza essa coinvolge logicamente sempre tutta la persona nella sua interezza), ma perché avviene grazie all’azione dello Spirito Santo, che sempre agisce: è lui che introduce nel mistero di Gesù e della Trinità. Nessuno può dire Cristo è Signore (quindi fare esperienza di Gesù come vero Dio e vero uomo: questa è la vera fede) se non nello Spirito (cf. 1 Cor 12, 3). Nessuno può dire Abbà Padre (quindi fare esperienza di Dio come Padre) se lo Spirito non mette sulla sua bocca quella parola (cf. Rm 8, 15).
L’esperienza cristiana è dunque esperienza trinitaria, del Dio Amore rivelato e comunicato da Cristo Gesù.
Inoltre essa è pasquale perché domanda di ripercorre l’itinerario di vita e di morte di Cristo per giungere con lui all’esperienza della risurrezione e della pienezza della vita, ed è ecclesiale perché legata alla sacramentalità della Chiesa ed esperienza di Chiesa e nella Chiesa.
La vita cristiana infine è mistica perché attinge al Mistero e vive del Mistero. Essa coincide con la vita di fede, che si manifesta nell’amore, quale piena adesione di tutto l’essere e di tutta la comunità a Cristo e alla sua parola.
Questa realtà di Dio può essere vissuta realmente, anche quando non la si percepisce in maniera particolarmente intensa, anche quando non la “si sente”. Essa diventa esperienza nel momento in cui, anche grazie ad una particolare intensità di vita di preghiera, di amore, di donazione, ma soprattutto per l’iniziativa della grazia, la vita mistica “si sente”, quando cioè si percepisce, si avverte personalmente l’unione con Dio e la presenza di Gesù tra quanti sono uniti nel suo nome. Questo può avvenire senza particolari “fenomeni” mistici.
Si tratta di una esperienza mai compiuta, dinamica, che introduce sempre più nel mistero della Trinità. Il cammino della fede porta a conoscere e a vivere il mistero di Cristo in maniera sempre più profonda (cf. Ef 4, 1-16), fino alla piena trasformazione in lui. La persona e la comunità trovano in Cristo Gesù il proprio io più profondo, frutto della koinonia con lui. Due espressioni di Paolo – “Non sono più io che vivo” (Gal 2, 20); “Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra” (1 Cor 12, 27) – indicano la duplice dimensione, personale e collettiva, dell’unione con Cristo.
Il cammino di fede giunge a gustare il frutto dello Spirito: “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5, 22). L’esperienza di Dio, in Cristo e nello Spirito, porta inoltre alla piena conoscenza della paternità di Dio e quindi alla conoscenza e alla piena consapevolezza della realtà più profonda del proprio essere umano: siamo figli di Dio. È questa l’esperienza più intima del cristiano, poter dire: Abbà, Padre (Rm 8, 16, Gal 4, 6).
La Vita, manifestata in Gesù, grazie all’azione dello Spirito, diventa allora talmente vita personale da far dire al cristiano, inserito nella comunità, di averla udita, vista, toccata, proprio come testimonia la comunità giovannea4.
La consapevolezza storica
Lungo la storia della spiritualità cristiana si è presa sempre più coscienza che il Mistero lo si crede, lo si accoglie, lo si vive, ma se ne può avere anche una percezione sensibile, che coinvolge l’intera persona.
È interessante al riguardo il “terzo libro” di san Bernardo. Secondo una antica tradizione del pensiero cristiano, Dio istruisce mediante due libri, quello della creazione e quello delle Scritture. Bernardo parla di un “terzo libro”: il libro dell’esperienza. Iniziando il commento del Cantico dei Cantici scrive: “Questo cantico solo l’unione (dello Spirito) lo insegna, solo s’impara con l’esperienza; chi non ha questa esperienza arda dal desiderio, non tanto di conoscerlo, quanto di sperimentarlo”5.
La tradizione francescana è particolarmente eloquente al riguardo. Francesco e i suoi discepoli vogliono assaporare, sentire, gustare, sperimentare, rivivere il mistero che contemplano. Significativa la preghiera messa in bocca a Francesco: “O Signore mio Gesù Cristo, due grazie ti prego che tu mi faccia, innanzi che io muoia: la prima, che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nell’ora della tua acerbissima passione; la seconda si è ch’io senta nel cuore mio, quanto è possibile, quello eccessivo amore del quale tu, Figliuolo di Dio, eri acceso a sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori”6.
Angelo Clareno parla della “conoscenza esperienziale della croce e della passione di Cristo”, che coinvolge cuore, sensi, intelletto, fatti, parole, volontà, sentimento, in una “intellettuale, amorosa e sensibile conformità”7.
Lo stesso avviene nella tradizione domenicana. La conoscenza che si ottiene per grazia, scrive ad esempio san Tommaso, si attua in due modi: “uno è speculativo (…). L’altro consiste in una conoscenza affettiva o sperimentale della bontà o della volontà divine, e si ha quando uno sperimenta in se stesso il gusto della dolcezza divina e la benevolenza della sua volontà. Come Dionigi dice a Ieroteo, il quale ‘apprese le cose divine per averle provate’. È in questo senso che siamo invitati a fare esperienza della volontà divina e a gustare la sua soavità”8.
Una conoscenza integrale: i “sensi spirituali”
Il carattere unitario e unificante dell’esperienza spirituale interessa, al pari di ogni autentica esperienza umana, tutte le facoltà operative della persona, sia quelle spirituali (intelligenza, volontà, sentimento, ecc.), sia quelle sensoriali.
La Scrittura attribuisce un ruolo reale ai sensi nel dinamismo del rapporto umano con Dio per indicare la concretezza dell’esperienza9. L’udito, la vista, il tatto sono costantemente coinvolti nell’esperienza dell’uomo dell’Antico Testamento. La forza e la presenza di Dio e l’intensa intimità con lui sono realtà talmente forti, concrete e coinvolgenti, che si ha l’impressione di coglierle con i sensi. L’uomo dell’AT conosce anche il “gusto” di Dio e della sua parola e sperimenta la fragranza della sua presenza.
I sensi sono ancora più attivi nell’esperienza nel Nuovo Testamento, ora che Dio si è reso visibile. Basterà ricordare ancora una volta l’inizio di 1 Gv: “Ciò che noi abbiamo udito… veduto con i nostri occhi… contemplato… toccato con le nostre mani…” (1, 1-3).
A cominciare da Origene si spiega che l’esperienza di Dio passa attraverso quelli che ormai vengono chiamati i “sensi spirituali”. In ognuno di noi vi è un uomo esteriore, carnale, e uno interiore, spirituale, che hanno rispettivamente membra e sensi corporali e spirituali. I sensi carnali servono a farci conoscere le realtà materiali, quelli spirituali ci permettono di percepire le realtà spirituali, invisibili, eterne, divine.
Tra i Padri latini questo insegnamento è fatto proprio da Agostino che esercitò un influsso notevole nel tempo successivo10. Anche Tommaso d’Aquino e Bonaventura hanno trattato diffusamente dell’esperienza e dei sensi spirituali11.
Al di là dei molteplici modi in cui viene spiegata la partecipazione dei sensi alla conoscenza di Dio, l’esperienza spirituale appare il risultante del coinvolgimento della persona presa nella sua concreta interezza.
L’esperienza mistica carismatica
La vita cristiana, abbiamo detto, è sempre mistica nel senso che la vita nella fede veramente unisce, in Cristo e nello Spirito, al mistero di Dio. Essa è propria di ogni credente battezzato che vive nella carità, anche quando il Mistero non è sempre percepito in tutta la sua intensità. Di conseguenza ogni cristiano può giungere ad una esperienza spirituale che potremmo chiamare propriamente mistica.
Nella storia della spiritualità tuttavia il termine esperienza mistica è normalmente riservato ad esperienze nelle quali la percezione del Mistero avviene con particolare intensità ed evidenza. Tutti i cristiani credono nel Mistero, lo accolgono, lo vivono, ma alcuni lo percepiscono in modo sensibile e con grande profondità, grazie ad un particolare tipo di esperienza, normalmente legata a determinati fenomeni mistici (che rimangono tuttavia secondari e funzionali all’esperienza).
Questo è già evidente nel Nuovo Testamento. Basti pensare all’esperienza della Trasfigurazione: tutti gli apostoli avevano una esperienza reale di Gesù, ma soltanto Pietro, Giacomo e Giovanni hanno avuto una puntuale particolare esperienza “luminosa” di lui che gli altri non hanno avuto (cf. Mc 9, 2). Così Paolo sulla via di Damasco (cf. Atti 9, 4-6) o quando fu rapito al terzo Cielo (cf. 2 Cor 12, 2).
Queste esperienze vengono date dallo Spirito Santo a determinate persone come carismi, ossia come doni particolari, perché esse, avendo nuova luce sulle realtà di Dio e della vita cristiana, possano poi aiutare tutto il popolo cristiano a progredire in una più profonda conoscenza del Mistero12. Rivolgendosi al Signore Teresa d’Avila dice che è suo costume accordare le grazie mistiche “se non a chi se ne serve per giovare ad altri”13.
Tratti comuni
Queste esperienze, pur nella grande diversità offerta dalla storia della spiritualità, possiedono tratti comuni che potremmo identificare attorno ai seguenti aspetti: la gratuità, l’amore come via privilegiata di conoscenza, la consapevolezza dell’esperienza nello Spirito, la mistagogia.
Una prima caratteristica della mistica cristiana è la gratuità con la quale il Mistero si comunica. L’esperienza del Mistero non è tanto il frutto della ricerca di Dio da parte dell’uomo quanto della ricerca dell’uomo da parte di Dio: è dono dello Spirito attraverso Cristo Gesù. L’iniziativa è di Dio: l’esperienza la fa fare a chi vuole lui, quando vuole lui, come vuole lui.
L’esperienza mistica è una conoscenza integrale che coinvolge tutta la persona, è l’apertura di essa alla totalità dell’essere, ed è legata in modo particolare all’amore. Il rapporto tra conoscenza e amore è stato ripreso molte volte nelle varie formulazioni dagli autori spirituali. Bonaventura parla della conoscenza per amore, quando definisce la mistica cognitio Dei sperimentalis, cioè una conoscenza di Dio fondata sull’esperienza14. Scrive al riguardo: “La conoscenza sperimentale della dolcezza divina aumenta la conoscenza speculativa della verità divina, perché Dio rivela i suoi segreti ai suoi amici e ai suoi intimi”15.
Per Tommaso d’Aquino la contemplazione mistica è conoscenza nell’amore: “uno sguardo semplice sulla verità… che termina nell’amore”16, e “l’amore di Dio è migliore della sua conoscenza”17. Giovanni della Croce definisce la contemplazione come “scienza d’amore, la quale è conoscenza pregna d’amore, da Dio infusa, che simultaneamente illumina e innamora l’anima fino a farla salire di grado in grado a Dio suo Creatore, perché solo l’amore è quello che unisce e congiunge l’anima a Dio”18.
Nell’esperienza mistica non soltanto si vive il Mistero, ma se ne ha una coscienza particolarmente intensa. Il mistico è consapevole che lo Spirito sta operando in lui. “Dio – scrive da esempio Teresa d’Avila – in un istante mi fece capire ogni cosa con grande chiarezza”19. Riferendosi alle sue visioni mistiche aggiunge: “Per apprendere la verità non ebbi altro libro che Dio. E benedetto quel libro che lascia così bene impresso quello che si deve leggere e praticare da non dimenticarsene più!”20. Il mistero di Dio diventa allora così palpabile e l’unione con esso così coinvolgente che “si sente una gioia superiore a qualsiasi umana immaginazione”21.
L’esperienza mistica non è data solo a vantaggio della persona che la riceve. Nel dono carismatico c’è sempre una destinazione ecclesiale. L’esperienza si fa allora mistagogia: il mistico sa comunicare agli altri ciò che ha ricevuto e “sperimentato” personalmente. Anche questo è un dono del Signore. Inversamente, non si può insegnare veramente ciò che non si è sperimentato. L’ateismo sarebbe dunque frutto di un cristianesimo che non sa più dire Dio perché non è più capace di sperimentarlo22.
Dopo questi elementi introduttivi, possiamo ora tornare al senso dell’esperienza spirituale tipica dei membri del Movimento dei Focolari e più in particolare della sua fondatrice.
L’esperienza dell’entrata nel “seno del Padre”
Se, come dicevamo all’inizio, l’esperienza del divino, della vita in Dio, della vita d’unità tra i membri del Movimento è patrimonio comune a tutti i suoi membri, è altrettanto vero che in esso si sono verificate alcune esperienze mistiche particolari che appaiono come “segno” e anticipazione di un cammino nuovo che anche altri successivamente sono stati e sono chiamati a percorrere.
Un’esperienza soprattutto presenta chiari connotati mistici: quella vissuta dalla fondatrice e dal primo gruppo di compagne e compagni, nell’estate del 1949. Essa, frutto di un particolare momento carismatico, nell’ambito del Movimento è conosciuta come “Paradiso ’49”, perché quel ’49 si caratterizzò per una esperienza così viva delle realtà celesti, da sembrare di essere entrati nel Paradiso.
Gli inizi di quel periodo di luce sono stati più volte evocati in queste pagine23. Chiara stessa ne ha accennato più volte nei suoi scritti.
Circostanze impensate ma previste dalla Provvidenza fecero sì che, per riposo, il primo gruppo dei membri del Movimento si ritirasse dal mondo in montagna. Dovevamo ritirarci dagli uomini, ma non potevamo allontanarci da quel modo di vivere che costituiva il perché della nostra esistenza. Una piccola e rustica bàita di montagna ci ospitò nella povertà. Eravamo sole: sole tra noi col nostro grande Ideale vissuto momento per momento, con Gesù Eucaristia, vincolo d’unità, a cui si attingeva ogni giorno; sole nel riposo, nella preghiera e nella meditazione24.
Fu in questa intensità di vita e di unità che, immedesimate con Cristo per la piena conformazione a Lui abbandonato, per l’amore reciproco tra di loro, per la grazia dell’Eucaristia, rivolgendosi a Dio, lo chiamarono: “Abbà, Padre”.
E iniziò un periodo di grazie particolari – è ancora Chiara che scrive -. Avevamo l’impressione che il Signore aprisse agli occhi dell’anima il Regno di Dio che era fra noi: la Trinità che abita in una cellula del Corpo mistico: “Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi25.
Colpisce, in questa essenziale ricostruzione, il rapido ma essenziale accenno al cuore dell’esperienza mistica: “la Trinità che abita in una cellula del Corpo mistico”. Ogni esperienza mistica cristiana è per sua natura esperienza trinitaria, come è facile trovarne riscontro tra i mistici di tutti i tempi. Nello stesso tempo l’esperienza a cui Chiara accenna è caratterizzata da una spiccata valenza ecclesiale. L’inabitazione trinitaria non è percepita soltanto nell’intimo della singola anima, ma tra più persone unite in “cellula” di Corpo mistico, in Chiesa. L’aprirsi degli “occhi dell’anima” sul “Regno di Dio, che è tra noi”, di cui parla Chiara a proposito della propria esperienza, avvia alla percezione cosciente, sperimentale, del grande Mistero cristiano: Gesù che vive nella sua comunità, che porta con sé il Padre e lo Spirito, e porte in Gesù la comunità nel Padre e nello Spirito, per consumare nell’unità trinitaria l’intera umanità.
È un’esperienza mistica che presenta caratteri di novità, in un tempo in cui la Chiesa non aveva ancora preso pienamente coscienza del suo essere icona della Trinità, “popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, come più tardi avverrà con il Concilio Ecumenico Vaticano II26.
La terminologia mistica
L’esperienza del “Paradiso”, nel racconto che Chiara Lubich ne farà più tardi, si apre con una percezione visiva: il Seno del Padre appare “agli occhi dell’anima (ma è come l’avessi visto con gli occhi fisici) come una voragine immensa, cosmica. Ed era tutto oro e fiamme…”27.
Anche il primo scritto originario che racconta di quell’estate (datato 19 luglio 1949) inizia con un’esperienza sensoriale provocata direttamente dallo Spirito Santo che “ritocca” con un “bacio”, facendo “sentire” un forte male al cuore. L’annotazione con cui termina il racconto ha il sapore di una la formulazione dottrinale: “Nella via dell’unità ‘si sente’, nel senso che si avverte, se l’unità c’è o non c’è. Infatti la via dell’unità è anche mistica”. L’esperienza sensoriale è percepita esplicitamente come parte integrante dell’esperienza mistica
Nel racconto di quel periodo di grazie particolari ricorrono poi termini che continuano a possedere una chiara valenza esperienziale. Alcuni toccano maggiormente l’ambito conoscitivo: rivelare, mostrare, comunicare, vedere, illuminare, capire, comprendere, intendere, luce, intelligenza… Altri riguardano maggiormente l’ambito affettivo-sensitivo: sentire, avvertire, consumare, rimanere… La terminologia, da sola, indica già che l’esperienza fatta in quei giorni è una penetrazione di tipo intellettivo del mistero e, nello stesso, una conoscenza integrale, che coinvolge tutte le componenti umane. In questo senso sembra di sentire nuovamente il linguaggio dei “sensi spirituali” proprio della Scrittura e della tradizione cristiana.
Anche in seguito, lungo l’intensa esperienza spirituale di quell’estate, si diceva: “… ho sentito distinta, all’udito dell’anima, una voce…”; “La sua voce sottile mi diceva…”; “… chiaramente sentii la voce dello Spirito che mi parlava all’Anima…”; “… sento questo gaudio che m’invade tutta…”; “E lo vidi e sentii [il Padre] come non mai…”; “Allora mi sentii proprio Lui [Gesù nell’Eucaristia]”.
Siamo in presenza di un’esperienza mistica intesa nel suo senso forte di “adeguamento” al mistero e di “trasformazione” in esso. Chiara stessa, nel rileggere più tardi questi suoi scritti, annota che il fatto mistico è “un fatto tale da cambiare, in certo modo, la natura delle cose”, in quanto le assimila al mistero. Non a caso quell’esperienza viene definita come un “viaggiare il Paradiso”, che fa ricordare la radice ex-pèrior che, come abbiamo visto, rimanda al viaggiare come immergersi in qualcosa, penetrare qualche cosa.
L’entrata nel seno del Padre
Per capire ulteriormente il valore di questa ricchissima esperienza ci limitiamo a rileggerne il momento iniziale cogliendo alcuni dei tratti comuni alle precedenti esperienze mistiche cristiane, come anche la sua novità.
Ecco il racconto che più tardi ha fatto Chiara stessa del patto d’unità fra lei e Igino Giordani (detto “Foco”), che ha segnato l’avvio dell’esperienza.
Foco, innamorato di santa Caterina, aveva cercato sempre nella sua vita una vergine da poter seguire. Ed ora aveva l’impressione d’averla trovata fra noi. Per cui un giorno mi fece una proposta: farmi il voto d’obbedienza, pensando che così facendo avrebbe obbedito a Dio… Io non capii in quel momento né il perché dell’obbedienza, né questa unità a due… Nello stesso tempo però mi sembrava che Foco fosse sotto l’azione d’una grazia, che non doveva andar perduta.
Allora gli dissi pressappoco così: “Può essere veramente che quanto tu senti sia da Dio… Ebbene, domani andremo in chiesa ed a Gesù Eucaristia che verrà nel mio cuore, come in un calice vuoto, io dirò: Sul nulla di me patteggia tu unità con Gesù Eucaristia nel cuore di Foco. E fa in modo, Gesù, che venga fuori quel legame fra noi che tu sai. Poi ho aggiunto: E tu, Foco, fa altrettanto”.
L’abbiamo fatto e siamo usciti di chiesa. Foco doveva entrare dalla sagrestia per fare una conferenza ai frati. Io mi sono sentita spinta a ritornare in chiesa. Entro e vado davanti al tabernacolo. E lì sto per pregare Gesù Eucaristia, per dirGli: “Gesù”. Ma non posso. Quel Gesù, infatti, che stava nel tabernacolo, era anche qui in me, ero anch’io, ero io, immedesimata con Lui. Non potevo quindi chiamare me stessa. E lì ho avvertito uscire dalla mia bocca spontaneamente la parola “Padre”. E in quel momento mi sono trovata in seno al Padre28.
L’esperienza si presenta innanzitutto con i caratteri tipici dell’esperienza trinitaria:
– Cristiana: Chiara non può dire la parola “Gesù” perché immedesimata in lui;
– Teologale: perché figlia nel Figlio, pronuncia la parola “Padre”;
– Spirituale: è lo Spirito Santo che le mette sulla bocca la parola Padre.
Vi ritroviamo anche altri tratti, comuni alle esperienze mistiche, che pure denotano delle novità rispetto ad esse. È un’esperienza:
– Pasquale: Ogni autentica esperienza mistica ha il timbro pasquale: “Non sono più io che vivo” = morte; “Cristo vive in me” = resurrezione. Qui la morte di sé diventa la tipica “morte” di Gesù: il “patto” è fatto sul nulla di sé, ossia su Gesù abbandonato che è “infinita nullità”. Così la risurrezione (“Cristo vive in me”) è il Risorto in noi e in mezzo a noi, Gesù in mezzo.
– Ecclesiale: Ogni autentica mistica cristiana è ecclesiale, perché fatta da una persona inserita nel corpo mistico e a vantaggio di tutto il corpo mistico. Qui la dimensione ecclesiale è più evidente, esplicita, ed ha tratti di novità: l’esperienza dell’entrata nel seno del Padre è legata alla reciprocità dell’amore e al sacramento dell’Eucaristia, vissuto nella sua dimensione ecclesiale-comunitaria (cf. 1 Cor 10, 17). Riprenderemo più avanti questa dimensione ecclesiale.
Un’esperienza mistica
L’esperienza del “Paradiso ’49” presenta inoltre aspetti che la qualificano come un fenomeno mistico, che ha cioè delle particolarità carismatiche:
– Gratuità. Molte volte Chiara, rileggendo gli appunti di quell’estate, ha espresso la sua meraviglia davanti a tanta bellezza, arditezza, esattezza, profezia. Spesso ha affermato che è stato lo Spirito Santo a far capire, dire, scrivere quelle pagine: “è stata una grazia”. Nello stesso tempo un osservatore esterno non può non notare una piena rispondenza alla grazia, la disponibilità a lasciarsi guidare nell’esperienza di luce. Significativa la descrizione dei primi momenti dell’esperienza mistica, così come è descritta dalla protagonista: l’Anima29 “… attendeva nuove illuminazioni”, parole, queste, che denotano un simultaneo atteggiamento di attività e di passività davanti al dono di Dio.
– Conoscenza integrale: rapporto tra conoscenza e amore.
Chiara usa significativamente le espressioni: “l’Amor vero” e “il Vero Amore (il Vero che è Amore)”. E nel commento ad una “parola di vita” di quel periodo scriveva che si crede all’Amore nella misura in cui si ama.
– Consapevolezza. In questa esperienza vi è la cosciente comprensione di quanto il patto ha operato: lo si percepisce sensibilmente, come si evince dalla narrazione di quanto avvenne subito dopo aver vissuto il momento di grazia dell’entrata nel seno del Padre. Chiara si incontra di nuovo con Igino Giordani e, dopo avergli domandato: “Sai dove siamo?”, gli racconta quanto aveva appena sperimentato. Lei “sa” dove si trova – nel seno del Padre -, Giordani non sa! Appare qui la differenza tra il vivere la realtà mistica, come avviene in Giordani, che è con Chiara nel seno del Padre, ma “non lo sa”, non lo percepisce sensibilmente, e il vivere la realtà mistica come avviene in Chiara, che invece, per una grazia d’ordine carismatico, “sa” dove si trova.
La coscienza di essere strumento di una grazia mistica carismatica è affermata più volte. Leggiamo ad esempio nella narrazione di quell’esperienza: “Sento in me tanta Luce che non sarebbero sufficienti tanti volumi quanti i fili d’erba del mondo…”.
– Mistagogia: La fondatrice del Movimento non soltanto è consapevole dell’evento mistico che le sta accadendo; ella rende consapevole anche l’altro (Giordani) di quanto il patto ha operato. “Sai dove siamo?” è una modalità espressiva per svelare la realtà del mistero vissuta in maniera consapevole. A Igino Giordani che non sa “dove siamo” lei svela non soltanto quello che ella è nella realtà mistica, ma anche l’essere dell’altro e quello che egli sta vivendo con lei.
Ugualmente comunica tutto alle sue compagne; un comunicare che non è soltanto svelare la propria esperienza, ma introdurre nella propria esperienza, coinvolgere in essa e rendere partecipi di essa. Chiara stessa recentemente ricordava: “Descrivevo così perfettamente ogni cosa alle focolarine che anche esse “vedevano” nella stessa maniera”. Vedevano nel senso che vivevano, partecipavano di quelle realtà, erano trasformate in esse: “Questi misteri avvenivano in me, Chiara, ma, non appena comunicati al resto dell’Anima, li avvertivamo comuni…”30.
Quello che ella “sente” lo comunica e lo rende presente in tutta l’Anima. E quello che dona comunicando si “moltiplica” nei fratelli proprio perché donato: “Quando tutto Dio sentiamo in noi… moltiplichiamoci nei fratelli, donandoci tutti: donando di noi tutto: anche Dio in noi”31.
Un testo rivela la particolarità di questa mistagogia: “Potessi mandarti un angelo a dirti tutto! – scrive Chiara a Giordani dopo che questi è tornato a Roma -. Ma tu sei me, vero?”. Non c’è bisogno di un angelo perché, grazie alla spiritualità collettiva, Giordani è lei (“eravamo uno anche se distinti”). La comunicazione qui, a differenza di altre esperienze mistiche, è dire-dare sé non ad un altro, ma a sé stessi: “Tu sei me, vero?”. È un se stesso dilatato perché, per effetto dell’essersi completamente donato, in qualche modo ha la sua identità nella persona del Cristo tra due o più. Insieme infatti i due, e poi gli altri, sono entrati nel seno del Padre. È un tipico frutto della novità della mistica dell’unità. Questo non toglie la funzione unica e irrepetibile di colei che avuto la diretta percezione mistica dell’evento. Pur avendo condiviso e reso partecipe il gruppo dell’esperienza, ella rimane come il “centro dell’Anima” (termine che, come abbiamo accennato, indicare la fusione nell’unità operata dal “patto”), ossia lo strumento privilegiato e canale dell’esperienza mistica32.
Un’esperienza ecclesiale e comunitaria
Torniamo ora sulla dimensione ecclesiale, comunitaria, dell’esperienza che già appare evidente da quanto esposto fin qui. Il patto, con le sue molteplici articolazioni, introduce in quel particolare tipo di esperienza – l’entrata nel seno del Padre e poi il “viaggiare il Paradiso” – perché l’unità consente una presenza nuova, “Gesù in mezzo”, che dona lo Spirito, rende tutti, in Sé Figlio, figlio del Padre, e introduce nella vita trinitaria, facendo vivere di essa. La vita d’unità rende possibile la pienezza dell’esperienza mistica, che è vita trinitaria.
Chiara scrive, ad esempio: “Chi vive l’unità vede il Vangelo con l’occhio di Dio e vi penetra in profondità più o meno a seconda dell’esperienza, cioè della santità raccolta nella sua vita di unità…”33. La penetrazione del mistero è relativa alla vita d’unità. Per altri mistici l’esperienza coincide con l’amore, qui con l’unità, amore consumato.
Chiara è consapevole non solo della sua esperienza mistica, ma anche della novità che essa denota rispetto alle altre esperienze storiche. Per questa parla di “nostra mistica”, di “mistica nuova”, o più semplicemente di “mistica” in senso assoluto. Che la vita mistica sia vita in Cristo è un dato tradizionale (“Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me”), così come la trasformazione in Cristo introduce nella vita trinitaria.
“Il vertice della vita spirituale – rileva Chiara stessa -, prima di adesso, era la mistica dell’unione dell’anima con la Trinità in sé per mezzo di Gesù. Incorporati in Lui, per Lui eravamo un tutt’uno con la Trinità”. Nella sua esperienza d’unità, continua Chiara, è avvenuto qualcosa di nuovo, che apre la mistica ad ulteriori dimensioni e consente una visione “dall’Alto, dall’Uno, dal Vertice, da Dio che solo […] vede le cose nel loro vero posto, nella proporzione con tutto il resto”34. Infatti nell’unità “non siamo più noi a vivere, è Cristo veramente che vive in noi”35, il Cristo che di molti fa una sola persona: “Tutti voi siete uno (eis = una sola persona) in Cristo Gesù” (Gal 3, 28), e che introduce con sé nel seno del Padre, nella vita trinitaria. “E noi – scrive Chiara sempre richiamando il patto d’unità con Igino Giordani – non eravamo più noi, ma Lui in noi: Egli fuoco divino che consumava le nostre due anime diversissime in una terza anima: la Sua: tutta Fuoco. Per cui eravamo Uno e Tre. Gesù e Gesù in Lui; Gesù in me; Gesù fra noi”36
La novità della spiritualità dell’unità sta nell’aver intuito che si è “veramente” Gesù, “Gesù completo”, quando si è il suo Corpo, la Chiesa, quando cioè si è nell’unità: Gesù è nel “dove due o più”, è Gesù fra noi.
L’esperienza spirituale non riguarda allora soltanto il singolo membro ma la comunità come tale, e diventa autentica mistica ecclesiale. Nella spiritualità dell’unità il soggetto dell’esperienza è il gruppo reso uno nel quale ogni singola persona diventa soggetto di esperienza in quanto divenuto “una sola persona” in Cristo. Per esprimere questa duplice indivisibile realtà Chiara impiega due termini: “Anima” e “drappello”. Con il primo indica l’unità tra le persone coinvolte nell’esperienza mistica, con il secondo la distinzione tra le persone che non viene annullata dall’unità: perché vivono l’unica esperienza nell’unità, ogni “anima” del ”drappello” può dire propria l’esperienza dell’“Anima”.
L’esperienza mistica torna ad essere ecclesiale, come nell’esperienza di Pentecoste, come in quella dei due di Emmaus: “Non sentivamo (plurale) come un fuoco nel cuore, quando egli lungo la via (“Gesù in mezzo”) ci parlava e ci spiegava la Scrittura?” (Lc 24, 32), come in quella della comunità giovannea: “Quello che abbiamo udito, quello che abbiamo veduto coi nostri occhi, quello che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato… (tutti verbi al plurale)” (1 Gv 1, 1-3).
La Chiesa torna ad essere il soggetto dell’esperienza mistica. Se Dio è Unità nella Trinità il soggetto più adeguato per conoscerlo è un soggetto “trinitario”, una comunità che vive dell’unità trinitaria e a modo della Trinità. In essa vi è la piena esperienza del mistero, l’esperienza mistica della Trinità. L’esperienza mistica è dunque frutto dello Spirito che “circola” tra quanti vivono l’amore reciproco e li “consuma in uno, in un solo Dio”. Anche in questo l’Ideale è ritorno alle origini della spiritualità cristiana: Pentecoste fu un’esperienza dello Spirito fatta in comune37.