Rwm e i tagli al personale

L'azienda produttrice di munizioni e armamenti, nel Sulcis-Iglesiente, non stabilizzerà i lavoratori a tempo determinato. Una conseguenza della sospensione delle esportazioni verso i Paesi in guerra. Ma il Comitato di Riconversione continuerà a proporre soluzioni alternative per lo sviluppo del territorio e per un lavoro degno

Il 10 settembre la direzione aziendale della Rwm ha annunciato il taglio di circa 160 posti di lavoro.

Ciò non significa però che altrettanti lavoratori vengano licenziati, in quanto, i 2/3 della forza lavoro della fabbrica, circa 200 dipendenti, sono costituiti da personale a tempo determinato, in somministrazione, il quale personale (dice l’azienda), al termine previsto dal contratto, non verrà né riassunto, né rimpiazzato. Non licenziamento, dunque, ma mancata riassunzione e comunque tanto lavoro in meno per il Sulcis-Iglesiente, un territorio che non se la passa per niente bene.

Trattandosi di lavoratori in somministrazione, non avranno nemmeno diritto a cassa integrazione o mobilità anche se il comunicato aziendale lascia intravvedere questa possibilità.

Si tratta del contraccolpo occupazionale causato dalla giusta decisione governativa di fine giugno, quando, a seguito di una mozione parlamentare, è stata stabilita una sospensione di 18 mesi delle esportazioni di munizioni e armamenti verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, in considerazione dell’uso di tali ordigni nella guerra in Yemen, da parte della coalizione saudita.

E’ giusto ricordare che la legge italiana non consente il transito, la produzione e l’esportazione di armamenti verso paesi belligeranti e dunque l’embargo sarebbe dovuto entrare in vigore già dal 2015, quando l’Arabia è entrata in guerra contro i ribelli yemeniti.

Nello specifico, la sospensione riguarda le famose bombe per aereo della serie MK80, prodotte nel Sulcis-Iglesiente, dalla ditta Rwm Italia spa, sussidiaria del gruppo tedesco Rheinmetall.

Presumibilmente, l’azienda ha preferito non stabilizzare la maggior parte dei propri lavoratori, proprio in considerazione della rischiosità dell’operazione commerciale che stava conducendo, esportando verso un paese in guerra, regolarmente autorizzata ma contrariamente al dettato legislativo italiano (legge 185/90), alla Posizione Comune dell’Unione Europea ed ai Trattati Internazionali.

Incrociando i dati delle autorizzazioni governative alle esportazioni – impressionante quella relativa a circa 20 mila ordigni, per un importo di oltre 400 milioni di euro, rilasciata dal governo Renzi alla Rwm, nel 2016 – con i dati di bilancio dell’azienda italo-tedesca, si può osservare che la ditta, pur avendo avuto in questi anni una costante crescita del fatturato, in buona parte legata a quella commessa, non ha potuto certo assolvere completamente all’impegno preso con i Saud, in quanto la capacità produttiva della fabbrica non ha superato i 100 milioni l’anno ed essendo stata la produzione comunque distribuita non solo verso i sauditi ma anche verso altri Paesi europei e lo stesso Stato italiano.

Si può ragionevolmente stimare che, in 3 anni scarsi, solo una quota minoritaria dell’ordinativo sia stato effettivamente consegnato e che proprio per questo motivo, l’azienda fosse impegnata, fino al momento dello stop governativo, ad aumentare la produttività mediante nuove assunzioni e nuovi investimenti per circa 40 milioni di euro, rivolti all’aumento delle linee di produzione.

Ma torniamo ai lavoratori, che sono quelli che le difficoltà aziendali le pagano sulla propria pelle. Anche stavolta assistiamo a un film già visto. Come al solito, le debolezze di un sistema malato si scaricano sugli anelli più deboli e come all’Ilva, come all’Alcoa, come alla Rockwool, e in tanti altri casi, si tagliano i viveri alle famiglie, causando la crisi di interi territori.

Se il Comitato Riconversione Rwm non può non essere soddisfatto per la sospensione di quel tragico collegamento tra l’Iglesiente e lo Yemen, che ha contribuito a generare la maggiore crisi umanitaria del secolo (definizione Onu), d’altra parte, è sconfortato per il trattamento riservato alle maestranze, le quali, già deboli a causa della precarietà del rapporto di lavoro, si trovano ora scaricate come ferri vecchi, senza, al momento, un intervento di tutela da parte dello Stato, principale responsabile del danno, causato da irresponsabili autorizzazioni all’esportazione.

Si poteva evitare? Certo che si poteva. Se solo si fossero considerati per tempo i numerosi avvisi relativi all’illegittimità dell’operazione, provenienti dalle maggiori organizzazioni pacifiste italiane, le 5 richieste di embargo verso l’Arabia Saudita approvate dal Parlamento europeo e le richieste di riconversione avanzate, fin dal maggio 2017, dal Comitato Riconversione Rwm, e, successivamente, dalla Chiesa Sarda, dal Congresso Nazionale Cgil di Bari a gennaio 2019 e da altri soggetti.

I lavoratori della Rwm sono stati, invece, ingannati per anni. Gli veniva detto che il loro lavoro era finalizzato alla difesa, che era “regolarmente autorizzato”, che dovevano stare buoni e non fiatare perché, a tutto avrebbe pensato mamma Rwm, ma così non era. La mamma pensava solo al proprio tornaconto ed era pronta a liberarsene alla prima difficoltà.

Ora c’è addirittura chi accusa le associazioni pacifiste e ambientaliste di essere la causa dei “licenziamenti”, quando è sotto gli occhi di tutti che quel tipo di commercio non è ammesso in Italia, al pari dello spaccio di sostanze stupefacenti e dello sfruttamento della prostituzione.

È come  accusare il poliziotto al posto del ladro o il medico al posto della malattia.

E ci sono anche dei sindacalisti che propongono che sia lo Stato ad acquistare le bombe in surplus per sostenere i lavoratori. Svariate migliaia di bombe per aereo! Per farne che cosa?

Ci sarebbe da farsi prendere dallo sconforto ma il Comitato non cambierà di una virgola il proprio obiettivo: tenere insieme il diritto alla vita con il diritto al lavoro.

Solo tutelando il primo, ha senso il secondo. Saremo alla riunione in Regione, attiveremo altri tavoli e continueremo a proporre soluzioni alternative per lo sviluppo del territorio e per un lavoro degno, per evitare che la nostra gente possa sentirsi costretta a portare il pane a casa collaborando inconsapevolmente coi signori della guerra.

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