Rutilio esule in patria

Indagine sul viaggio di addio ad un mondo felice dell’ultimo poeta latino
Fonte: Pexels

Gran parte del fascino dei poemi omerici consiste nelle traversie degli eroi reduci dalla guerra di Troia, Ulisse fra tutti. Il distacco dalla patria e dai propri cari, la nostalgia dell’attesa e le peripezie sperimentate prima di poterli rivedere sono sentimenti universali, di ogni epoca: toccano corde a cui nessun essere umano è insensibile, e gli scenari attuali di popoli in fuga da guerra, fame e miseria li ripropongono con crudo realismo. Sarà per questo che il De reditu (il ritorno), poemetto latino di un autore sconosciuto del V secolo d. C., ha avuto una insospettata fortuna, a giudicare dalle opere di narrativa e poesia, cinematografiche e teatrali ad esso ispirate. Vediamo di che si tratta, sulla scorta di un agile testo di Mariagrazia Celuzza pubblicato da Effigi: Sulle tracce di Rutilio Namaziano. Il “De reditu” fra storia, archeologia e attualità.

Il saccheggio di Roma da parte dei goti di Alarico, nell’agosto del 410 d.C., fu un evento di immensa risonanza che accelerò la decadenza generale dell’Impero romano d’Occidente e della stessa città, già declassata da capitale a favore di Ravenna. Sintetizza lo stato d’animo dei contemporanei san Girolamo: «Che cosa mai si potrà salvare, se perisce Roma?». Dopo quell’affronto inaudito, i goti misero a ferro e fuoco l’Italia intera per poi passare in Provenza e, nel 415, nella Penisola Iberica. Fra le ultime settimane di ottobre e i primi di novembre del 417 Rutilio Namaziano – una brillante carriera di alto funzionario statale, imperante Onorio – fu costretto a lasciare quella Roma divenuta sua patria di adozione e ora ferita e umiliata, per occuparsi dei danni apportati dalle scorrerie barbariche ai suoi possedimenti nella Gallia Narbonese (l’attuale Francia meridionale), di cui era originario.

Scartato il percorso via terra a causa dei saccheggi nella Penisola italica, come pure la soluzione più comoda e breve della traversata in alto mare con un’unica nave da carico – sconsigliata però dal mare clausum (il periodo fra autunno e inverno) –, ripiegò su una navigazione sottocosta con una piccola flotta di barconi, sia per assicurarsi un carico cospicuo, sia per riparare a terra in caso di maltempo. Partito da Portus, il porto di Roma, verso nord Rutilio lambì la costa tirrenica a piccole tappe, fermandosi a pernottare presso amici o locande, costretto a volte dal maltempo a soste forzate.

Di questo evento privato non sapremmo nulla senza la scoperta, nel 1493, presso il monastero di San Colombano a Bobbio, di un codice latino sconosciuto: il poemetto mutilo di Rutilio Namaziano, noto in seguito col titolo moderno De reditu suo (Il ritorno), al quale si aggiunse nel 1973 un altro breve frammento rinvenuto nella Biblioteca Nazionale di Torino. In tutto centoventi versi riguardanti l’itinerario dell’autore fino ad Albenga, in Liguria. Tra descrizioni di paesaggi e porti, esaltazioni della grandezza di Roma, elogi di amici e invettive contro nemici, considerazioni morali e digressioni erudite, l’opera rispecchia un mondo in rovina, a causa del disamore e delle invasioni, ma anche, afferma l’autore pagano, per effetto del diffondersi del cristianesimo.

Romano nel profondo dell’animo benché nato in una provincia, già nell’inizio Rutilio si dichiara diviso tra due affetti: il richiamo della terra d’origine che reclama la sua presenza e la nostalgia che già prima di partire lo trattiene nella antica capitale del mondo. Così il nostos, il ritorno, si preannuncia come un esilio nella propria terra natale e una dichiarazione d’amore per l’unico luogo in cui il poeta vorrebbe finire i suoi giorni: Roma. In questo, l’autore si avvicina molto alla poesia dell’ultimo Ovidio, lui pure esule, ma per decreto di Augusto in una terra non sua, e senza possibilità di ritorno.

Il brano più famoso del poemetto è il discorso d’addio che Rutilio rivolge a Roma, assunta come dea tra gli altri numi e meritevole di lode per aver unificato il mondo («Hai fatto di diverse genti una sola unica patria… un’unica città hai fatto di ciò che prima era il mondo»). Dopo aver illustrato le sue meraviglie architettoniche e naturali, il poeta tesse l’elogio della virtus con la quale la città eterna ha riscattato le sconfitte; e le augura, una volta sottomesso il nemico barbaro, di rifiorire più ancora dopo la decadenza, così come avviene per gli astri: tramontano per poi risorgere. E conclude: «Sia che mi sia concesso morire nella patria terra, sia che un giorno tu sia restituita al mio sguardo, vivrò felice, fortunato oltre ogni desiderio, se tu eternamente vorrai ricordarti di me».

Come si concluse il ritorno di Rutilio? Essendoci il poemetto giunto mutilo, si possono fare solo congetture, Forse arrivò in Gallia dove, sistemati i suoi possedimenti, utilizzò gli appunti presi in mare per comporre questo singolare diario di viaggio in versi: opera che, secondo la moda del tempo, potrebbe aver recitato ad amici scelti, magari nel contesto di un banchetto. Del resto, negli stessi anni e nella stessa area geografica circolava una commedia anonima, il Querolus (Il brontolone), dedicata ad un certo Rutilio, funzionario statale, esperto di lettere e filosofia. Niente impedisce di pensare che si tratti proprio del nostro autore. Un’altra ipotesi lo immagina rientrato a Roma, dove avrebbe portato a termine il De reditu e i suoi giorni. A meno che non fosse morto già durante il viaggio di andata, come lascia intendere un film del 2004 ad esso ispirato.

Scrive la Celluzza nel suo libro: «Il De reditu può essere uno straordinario documento per ripercorrere le coste centro-tirreniche con gli occhi dell’archeologia. La lettura archeologica è infatti una delle possibilità che questo testo multiforme concede, a patto di far dialogare i versi di Rutilio con le acquisizioni delle ricerche, nel tentativo di disegnare con maggiore nitidezza quei paesaggi che l’autore ha lasciato allo stadio di schizzo poetico». E prosegue ragguagliando il lettore su un itinerario dove scavi recenti o ancora in corso non di rado confermano le sintetiche descrizioni del poeta: dai centri costieri laziali a nord di Portus alle isole dell’Arcipelago toscano viste da lontano, dove questo pagano tradizionalista attacca con violenza i monaci di Capraia, considerati uomini irrazionali «che fuggono la luce»; fino alla tappa di Populonia, «vero culmine romantico del De reditu»: «Non si possono più riconoscere i monumenti dell’epoca trascorsa,/ immensi spalti ha consunto il tempo vorace./ Restano solo tracce fra crolli e rovine di muri,/giacciono tetti sepolti in vasti ruderi./Non indigniamoci che i corpi mortali si disgreghino:/ ecco che possono anche le città morire».

Esperienza di un viaggio interiore, più che descrizione di luoghi, questo testo antico di 1600 anni ci coinvolge per le note malinconiche e rassegnate dell’autore, esule suo malgrado, che nelle rovine di città e ville marittime scorte durante il percorso, nello sfacelo di un’Italia violentata dagli invasori paventa, malgrado le sue illusioni di rinascita, la fine di un mondo. Ciò che infatti avverrà fra la metà del VI e il VII secolo con la guerra gotica, la conquista longobarda dell’Italia, la conquista vandala dell’Africa e, infine, con l’avvento degli arabi. Insieme ai disastri provocati dai cambiamenti climatici.

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