Rufino alla scoperta dei magi

Lungo la via Salaria, il complesso cimiteriale detto di Priscilla – la “regina delle catacombe", come venne soprannominata nell’antichità a causa dei numerosi martiri in essa sepolti – ci ha restituito fra l’altro le più antiche raffigurazioni dei Magi e della Madonna col Bambino. Come descrivere le suggestioni suscitate in me da una visita a questa catacomba, la cui origine si fa risalire al II secolo dopo Cristo? Ci provo con questo racconto un po’ pasquale/un po’ natalizio, che ci trasporta indietro nel tempo.
Foto Pexels

Per chi vi giungeva dalla gran luce del sole, l’ingresso della catacomba assomigliava a una nera voragine spalancata, in cui entrava e da cui usciva gente. Essa inghiottì anche l’uomo, la donna e il bambino, un bimbetto sui cinque anni, al quale sembrò di sprofondare fin nelle viscere della terra via via che si discendeva per quei gradini, per quella rampa in ripido pendio.

Fiammelle tremolavano qua e là come lucciole vagolanti lungo le siepi, d’estate: erano lucerne d’ogni tipo affisse alle pareti della galleria o recate in mano dai visitatori. Emanavano un chiarore che, insieme a quello diffuso dagli altissimi lucernari, permetteva bene o male di scorgere file sterminate di loculi e, di quando in quando, arcosoli e cubicoli: l’estrema dimora di una moltitudine di cristiani addormentati nel Signore.

Ombre silenziose in quella semioscurità, i vivi sostavano accanto ai loro defunti, più numerosi là dove tombe dipinte e maggiormente illuminate attestavano la presenza di un martire o di un santo. Dinanzi ad una di esse la donna seguì l’esempio di altri che facevano cadere alcuni grani d’incenso in un piccolo bruciaprofumi. Poi passò oltre, tenendo per mano il bambino, il cui visetto un po’ spaurito appariva e scompariva tra l’ampio fluttuare delle vesti della madre. «Qui dormono i nostri fratelli – gli sussurrò lei all’orecchio –. Nel giorno voluto dal Signore, si risveglieranno. Dormono intanto, cullati dai loro angeli…».

Certi cubicoli accoglievano intere famiglie in preghiera o intente al refrigerium, il frugale pasto col quale si era soliti onorare il defunto: un gesto che esprimeva il perdurare della comunione con lui, oltre la soglia della morte. Un tenue ronzio, come d’alveare, si propagava sotto quelle volte; a tratti si distinguevano, ora vicini ora lontani, dei canti dolci e solenni. E l’acre sentore delle migliaia di lampade si mescolava a quello grato delle essenze odorose, dei fiori.

Il bambino scopriva per la prima volta quel mondo sotterraneo, e ne avrebbe avute di domande; ma non osava. Chi era stato deposto in quella tomba davanti a cui pregavano in tanti? Cosa volevano significare tutte quelle pecorelle dipinte, e perché tanti uccelli? Difatti, all’incerto guizzare delle fiammelle apparivano ora coppie di pavoni dalla lunga coda gemmata, ora uno svolìo di colombe con rametti d’ulivo nel becco, ora mansueti agnelli che rivolgevano sguardi umani a un personaggio che ne recava uno in spalla. Altre volte erano figure oranti che aprivano le braccia verso di loro, come per un saluto…

Se i due sposi avessero saputo di lettere, avrebbero potuto decifrare sulle lapidi cento e cento espressioni di fede, di speranza, di composto dolore; ma erano quasi analfabeti: lui, Gennadio, calafato di barche al Testaccio, riusciva appena a sillabare qualche parola; e sua moglie Antonia non era da più di lui. In compenso, ad essi parlavano i simboli della loro fede, le immagini dipinte o scolpite. E volentieri indugiavano per additarle al piccolo Rufino. «Questo pesce rappresenta Nostro Signore… la colomba è la nostra anima che vola lieta nella pace del paradiso… Ecco il moggio che contiene non grano ma le buone opere che ci seguiranno nell’altra vita… Guarda quella pittura: è la santissima Madre del nostro Dio, fatto bambino come te… ed ecco i Magi che recano doni al piccolo nato».

«Che strane vesti!» esclamò il bambino indicando i Tre. Il padre sollevò la lucerna perché il figlio potesse vederli in alto sulla parete insieme alla stella della salvezza, indicata da un profeta. E tante altre meraviglie apparivano a Rufino: Noè che balza fuori dall’arca come quei pupazzetti a molla chiusi in una scatola; Giona scaraventato a capofitto nelle onde per essere inghiottito dal terribile pistrice, lo stesso che nella scenetta successiva lo risputa all’asciutto: simbolo di Cristo che muore e risorge dopo tre giorni. E ancora Magi incamminati a passo di danza, e perfino una natività col Bambino nella mangiatoria, fiutato dal bue e dall’asino.

Bene aveva fatto l’anonimo pittore a dipingere proprio lì, tra gli addormentati nel Signore, simili scene: per quella stella che indicava il Dio dei vivi, le catacombe oscure brillavano più del sole; per quella nascita, i primi cristiani potevano celebrare come dies natalis, giorno della nascita alla patria celeste, quello della morte dei propri cari. I quali non sopravvivevano solo nella memoria, come si auguravano i pagani nelle loro malinconiche epigrafi: vivevano in eterno. «Vivi, riposa in pace… la tua anima sia tra i santi… Ricordati di noi, prega per noi…».

«Papà, Colomba non era contenta di stare con noi, già che è volata in cielo?». «Sì, Rufino, lo era. Ma c’è una gioia maggiore, che non finisce mai: quella del paradiso. Lì non saremo mai separati da Cristo, dagli altri santi… Tu questo lo credi, vero?».

Andavano ora più spediti nel labirinto delle gallerie. Il primo fossore che sbucava da un cubicolo con la sua lucerna e una cesta colma di calce in spalla, Gennadio lo fermò. Confabulò con lui, poi si rivolse alla moglie: «Sì, è là… siamo quasi giunti». La galleria si diramava in due bracci: fra loro, sull’assottigliata parete di tufo alcune tombe piccine erano di bambini, di neonato. Nessuna scritta sulle tegole che le chiudevano: erano tombe povere; ma incastrata nella calce che ne sigillava una, si distingueva una bambolina d’osso, di poco prezzo.

Posata la lucernetta in un cavo della parte, Gennadio si appoggiò alla tomba a braccia allargate, quasi a proteggerla o in atto di preghiera; poi sollevò Rufino, perché stampasse un bacio sulla bambola della sorella. In silenzio, con la mente e l’anima avvinte alla piccola defunta, i due sposi riandarono al tempo in cui l’avevano ricevuta dalla comunità dei fratelli, dopo che era stata abbandonata, come tanti altri neonati, ai piedi dell’infame Colonna Lactaria, al mercato delle erbe. L’avevano accolta con gioia, loro, e Rufino aveva avuto finalmente una sorellina.

«Tre anni fosti felice con noi – sospirò Antonia – e noi con te. Vivi in pace ora, vera Colomba senza fiele…». E unì la sua voce a quella del marito, che aveva intonato un breve inno all’Agnello. Poi tutti e tre mangiarono delle focacce, accompagnate con vino alquanto annacquato, per un piccolo, rapido, refrigerium, uno dei tanti che si celebravano sotto quelle volte.

Tornarono in superficie. Stanco per tanto camminare, Rufino che se ne stava abbandonato in braccio al padre sbatté le palpebre al sole e tenne gli occhi socchiusi. Mentre un delizioso sopore lo invadeva, tutto ora gli si confondeva dentro, tra sogno e realtà. Le pecore che pascolavano sul prato belando teneramente avevano sguardi umani come quelle dipinte. E lui era un agnellino in braccio al Buon Pastore. E Colomba riposava nella mangiatoia sotto lo sguardo di mamma. E i Magi, da tutta l’eternità, si affrettavano verso di loro con doni…

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