Ruanda, ricordare il genocidio per evitare nuovi massacri

La testimonianza di Scholastique Mukasonga, che nelle violenze perse oltre trenta parenti, madre compresa. «La storia dice che un genocidio non riesce mai del tutto: ci sono sempre delle persone che fanno sì che il male non abbia l'ultima parola»
Profughi in Ruanda

Scholastique Mukasonga è una scrittrice ruandese che vent'anni fa, tra i mesi di aprile e luglio del ’94, assistette all’estero alla tragedia dei Grandi Laghi che spazzò via dal suo Paese, in atroci combattimenti tra tribù rivali, oltre 800 mila persone, in gran parte tutsi.

«Il dovere della memoria non può essere dissociato da un anelito di futuro. Cosa per nulla scontata in un Paese segnato da una "normalità" per certi versi sospetta». Scholastique è nata nel 1956, e all'epoca del genocidio non era più in Ruanda, anche se lì erano rimasti tutti i parenti, di questi una trentina sono stati massacrati. Compresa la madre Stefania. A lei ha dedicato uno dei suoi tanti libri: “La femme aux pieds nus”.

«I genocidi – dice – non sono mai un "incidente". Si preparano per lungo tempo. Non sono un momento di follia o di smarrimento, ma il frutto di una manipolazione. Tutti, in Ruanda, vittime e carnefici, siamo stati manipolati per oltre trent'anni. Certo i responsabili devono rispondere dei loro atti, ma oggi dobbiamo soprattutto cercare di costruire il Ruanda del futuro. Io ho vissuto a Nyamata, uno dei luoghi più funestati dalle stragi, ma non provo nessun rancore. Penso piuttosto ai nostri figli e a costruire un avvenire in cui possano vivere insieme nel rispetto reciproco».

Scholastique ha parlato a Milano nell’auditorium del Centro missionario del Pime, nell'ambito dell'iniziativa per la Giornata della memoria 2014. Una iniziativa promossa per ricordare la Shoah e le vittime del genocidio del Ruanda. Alla serata interviene anche l'intellettuale ebreo Gabriele Nissim, presidente della Fondazione Gariwo, che ha rilanciato questo tema della memoria dei giusti, presente in ogni genocidio. Ricordare per non dimenticare, raccontare, fare memoria in qualsiasi modo, solo così si possono aiutare i popoli ad evitare altri massacri, altre stragi, altre migliaia di morti.

Scholastique Mukasonga afferma: «La parola scritta è diventata la strada per depositare la verità su questi fatti. Perché senza la verità non c'è possibilità di riconciliazione. Ma la storia dice anche che un genocidio non riesce mai del tutto: ci sono sempre delle persone che fanno sì che il male non abbia l'ultima parola». Secondo l'intellettuale ebreo Gabriele Nissim, è doveroso rilanciare questo tema della memoria dei giusti, presente in ogni genocidio. «Ripartire da loro, vuole dire ripartire da una speranza realista: dalla natura umana il male non si cancella, ma se promuoviamo la memoria di queste figure rendiamo più forte la possibilità di combatterlo ogni volta che si ripresenta».

Scrivere è un modo per dare la dignità di una sepoltura alle vittime di un genocidio. Facendo i conti realmente con i meccanismi che l'hanno reso possibile, senza fermarsi a un "mai più" debole, ridotto a uno slogan, ribatte Scholastique. «Nel giugno 1994 vivevo già in Normandia. Là si stavano celebrando i cinquant'anni dello sbarco e di quella guerra (la seconda guerra mondiale, ndr) e tutti ripetevano "mai più". Contemporaneamente nel mio Ruanda il genocidio viveva le giornate più cruente, nell'indifferenza del mondo. Ero molto a disagio, era come se il mio io fosse diviso tra due situazioni tra loro opposte».

Parla di una eredità pesante che si trascina da vent’anni. «Mi chiedevo: come posso raccontare? Mi ha aiutato la lettura di quanto scrive Wiesel nel libro "La notte", quando parla della testimonianza come un dovere per i morti, per i vivi e per le generazioni future. Ecco: la parola scritta per me è diventata la strada per depositare la verità su questi fatti. Perché senza la verità non c'è possibilità di riconciliazione».

Raccontare la verità per quei morti, diventa l’impegno prioritario. «Molti di loro in Ruanda non hanno nemmeno una tomba. Scrivere per me è un modo per restituire loro una memoria, dare la dignità di una tomba almeno di carta». «Da dove è venuto tutto questo male, in Ruanda? Sì, c'era la questione delle etnie, ma non basta a spiegare. Tutsi e hutu in Ruanda parlano la stessa lingua, hanno sempre vissuto insieme in un contesto dove il buon vicinato è una risorsa fondamentale, ci si aiuta se uno ha finito l'acqua o deve raccogliere la legna. Perché il mio vicino a un certo punto è diventato un mostro di crudeltà?».

I «giusti» ci furono anche in Ruanda, come nella Shoah. «Io stessa – ha ricordato Mukasonga – se sono viva è grazie a una persona hutu che in quegli anni Settanta mi aveva nascosto sotto un letto in casa sua durante un assalto contro i tutsi. Quella persona era la moglie di un deputato hutu. Ma, secondo me, accanto a queste figure, dovremmo onorare anche le madri tutsi che in quegli anni terribili mettevano al mondo dei figli, tramandando comunque una speranza di futuro. Dovremmo considerare anche loro come dei giusti».

In Ruanda tanti lavorano per sanare le ferite lasciate in eredità dal genocidio. «Penso a un'esperienza come la cooperativa "Coraggio di vivere", che vede insieme le vedove delle vittime del genocidio e le mogli dei genocidari che compirono quei crimini. È una storia cominciata in maniera dura: all'inizio il loro incontro avveniva perché le vedove tiravano le pietre alle altre donne quando si recavano in carcere a visitare i loro mariti. Poi però – a poco a poco – hanno capito che bisognava interrompere la spirale dell'odio. Partendo da una constatazione molto semplice: anche quella della moglie di un uomo in carcere per crimini del genere è una vita difficile. Così hanno dato vita a un'attività insieme, un allevamento di mucche. Ripartendo – appunto – dall'idea del buon vicinato, dove ciascuno trova un aiuto nell'altro».

Gabriele Nissim parla della grande lucidità con cui gli amici ruandesi analizzano la loro storia,«il vero problema del negazionismo della Shoah si colloca a questo livello: negare vuole dire rendere ancora possibile. Il giusto è colui che mostra come non basti la categoria dell'indignazione, oggi di nuovo così in voga – ha osservato Nissim –. Di fronte a un regime indignarsi e basta lava la coscienza; occorre invece agire. E dobbiamo essere anche franchi: noi diciamo "Mai più", ma sappiamo bene anche che l'uomo tende a ripetere il male. E allora ripartire dai giusti vuole dire ripartire da una speranza realista: la natura umana non si cambia, ma se promuoviamo la memoria di queste figure rendiamo più forte la possibilità di combattere il male di domani».

I più letti della settimana

Il Perdono d’Assisi

Guarire con i libri

Voci dal Genfest

Un patto planetario

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons