Rsa, gli anziani e la nostra vulnerabilità
Rsa e Recovery plan. Un investimento straordinario per la riforma dei servizi domiciliari e le strutture residenziali dedicate agli anziani non autosufficienti: è il cuore della proposta elaborata dal Network Non Autosufficienza presentata il 21 aprile al presidente Draghi, al ministro del welfare Orlando e al ministro della salute Speranza.
Il documento chiede di inserire nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza uno stanziamento di 7,5 miliardi per il 2022/2026: per non rischiare che “un Piano nato per rispondere a una tragedia dimenticasse proprio coloro che ne hanno pagato il prezzo maggiore”. E’ difficile ignorare infatti che i più colpiti dalla pandemia Covid-19 siano stati gli anziani non autosufficienti e in particolare gli ospiti delle residenze sanitarie e assistenziali.
L’urgenza di un importante cambiamento nelle politiche di assistenza alle persone anziane non autosufficienti è al centro anche del primo Rapporto della Commissione istituita nel settembre scorso dal Ministero della Salute e presieduta da mons. Vincenzo Paglia.
È chiaro che la situazione di compressione dei diritti che ha colpito e continua a colpire queste persone tra le più vulnerabili, nonostante sia in parte derivata da circostanze di emergenza, debba essere affrontata con più determinazione. Si guarda al rafforzamento dell’assistenza domiciliare, a piani e soluzioni integrate che incrementino la qualità della vita in Rsa e il co-housing, con l’obiettivo di far rientrare la persona anziana a casa ogni volta che è possibile. Migliaia di famiglie attendono con angoscia che venga riconosciuto carattere prioritario agli investimenti in questa direzione.
Come possiamo descrivere oggi la situazione in Italia all’interno delle Rsa? Qualche giorno fa, rappresentanti di associazioni ed esperti qualificati, nel corso di un convegno nazionale online – “Rsa e la cura degli anziani malati non autosufficienti” -, si sono chiesti se sia ancora legittimo continuare a tenere lontani i parenti dalle case di riposo dopo più di un anno dalle prime chiusure del marzo 2020. Quando il rischio biologico era molto alto non si poteva dubitare che fossero necessarie misure drastiche come l’immediata chiusura alle visite di familiari ed estranei. Ma certe prolungate segregazioni sono apparse presto insopportabili quando gli anziani sono stati confinati nelle loro stanze anche per settimane intere in attesa di normative chiare.
Oggi, a distanza di 400 giorni, ci sono situazioni in cui l’uscita dall’emergenza è stata rapida; tuttavia, in moltissimi altri casi i familiari non possono ancora incontrare coniugi, genitori e nonni all’interno di quelle strutture residenziali a cui si erano rivolti con la speranza che vi trovassero cure mediche e relazioni di qualità. Anche dove la situazione è meno grave, sono autorizzati solo incontri a distanza, limitati a tempi strettissimi, sotto la rigida supervisione di estranei, dietro un vetro o attraverso un telo di plastica.
Impossibile accompagnare un nipotino, mostrare una foto sul cellulare, condividere un dolce, offrire un piccolo dono e gioirne insieme… E l’accadere di un imprevisto fa sì che, dalla sera alla mattina, gli ingressi si chiudano di nuovo. Situazioni che hanno ferito in particolare gli anziani non autosufficienti che faticano ad esprimersi e interpretano solo la forza degli sguardi e delle carezze: come possono percepire una separazione prolungata se non come un abbandono?
“Impensabile andare avanti così”: è un’espressione che tanti tra i familiari hanno avuto sulle labbra in questo tempo difficile; chi non l’ha sperimentato può comprenderlo solo in parte. Senza trascurare che questo isolamento ostacola anche la necessaria funzione di controllo che gli stessi parenti devono poter esercitare all’interno di questi luoghi.
Cosa c’è dietro queste rigidità? Forse soprattutto la paura di sbagliare, in alcuni casi anche una certa carenza nella preparazione; e l’ignoto si affronta con durezza. Ma la comune vulnerabilità che la pandemia ci ha fatto toccare dà un nuovo fondamento anche alla responsabilità che ci lega gli uni agli altri. In effetti, non esistono evidenze scientifiche che giustifichino il prolungarsi di questa situazione quando la campagna vaccinale degli anziani nella Rsa è per lo più conclusa in tutte le regioni ed è diffuso l’uso dei dispositivi di protezione individuale e degli altri accorgimenti indicati dai protocolli.
Se, dopo il primo allarme, l’isolamento delle strutture e la restrizione dei contatti ha rappresentato, per così dire, l’arma di difesa più semplice, oggi «la chiusura alle visite in un momento in cui ci sono le condizioni per aprire rappresenta una seria violazione dei diritti delle persone, fino a poter parlare di maltrattamento», ha affermato Luca Fazzi che abbiamo ascoltato nel convegno, sociologo dell’Università di Trento impegnato da anni su questi temi.
Ha suscitato amarezza l’espressione del presidente di una residenza che aveva affermato che, se “«la visita di un parente dura 5 minuti, l’importante è come gli anziani vengono curati nelle 24 ore»: forse non è ancora chiaro che i diritti degli anziani non sono solo quelli primari della sopravvivenza fisica, ma è essenziale anche quello di poter continuare a vivere relazioni significative.
«Basterebbe chiederlo a loro – continua il prof. Fazzi -. Il punto è che la voce degli anziani nella retorica dominante è sparita. Serve un lavoro culturale e politico molto ampio». Un approccio riduzionistico dunque non è più accettabile: serve un cambio di marcia per dare un nuovo baricentro al trattamento medico e alla cura, che permetta di custodire quelle relazioni che sono il bene più grande delle nostre famiglie e della nostra società, e che coinvolgono anche il volontariato, gli organismi del terzo settore…
C’è anche tutto questo dietro alla sofferenza di chi racconta di non aver potuto stare accanto ai propri familiari anziani in questi lunghi terribili mesi, soprattutto per affrontare con loro i passaggi più duri tenendo stretta la loro mano. «C’è la vita umana nella sua interezza – come scrive lo stesso Luca Fazzi -, che è vita di relazione e in relazione fino all’ultimo giorno». Non possiamo rassegnarci a questa lacerazione profonda.