Rottura generazionale

La pandemia ha evidenziato una distanza fra generazioni che si era innescata da alcuni anni. Secondo uno studio sociologico spagnolo questo fenomeno sociale è una delle conseguenze più gravi provocate dal Covid.

Il Centro spagnolo di ricerche sociologiche (Cis) ha pubblicato di recente le sue conclusioni sulla “distanza fra le generazioni” dopo il periodo di pandemia. Sembra che, sia i giovani sia gli adulti, percepiscano che l’aumento di tale distanza sarà una delle principali conseguenze che ci lascerà il Covid, insieme alla mancanza di opportunità di lavoro e agli effetti psicologici sulla popolazione.

Scendendo più nei dettagli, in questo momento, i giovani ritengono responsabili le generazioni precedenti della mancanza di opportunità di sviluppo personale e dunque della precarietà lavorativa. Da parte loro, gli adulti, soprattutto dopo le ultime ondate di contagi, vedono i giovani come causa degli stessi problemi.

Niente di nuovo, si direbbe. Il divario tra giovani e adulti è una constante storica, già registrata nell’antica letteratura, pure in alcuni resti archeologici, se si ammette come certa la sentenza che tanto gira in internet, trovata in un’iscrizione babilonese del 3 mila a.C.: «Questa gioventù è marcia dal profondo del cuore. I giovani sono maligni e pigri. Non saranno mai come i giovani di prima. Questi di oggi non riusciranno a mantenere la nostra cultura».

La novità dei nostri tempi è però che il “divario” rischia di diventare “rottura”. Così la pensa, ad esempio, il professore de Antropologia sociale Carles Feixa Pàmpols, dell’università Pompeu Fabra (Barcellona): «La mancanza di equità generazionale ­– ha detto – è cresciuta a livelli allarmanti». A collaudare l’opinione del professore sono le opinioni diametralmente opposte ad una domanda dell’inchiesta del Cis sull’atteggiamento dei giovani durante la pandemia: «I giovani hanno agito in modo più irresponsabile delle persone di altre età?». La maggioranza degli intervistati di età compresa tra 18 e 24 anni dice clamorosamente di no, mentre tra gli adulti fino ai 45 vincono i sì, e c’è varietà di opinioni negli adulti fino ai 65, e da lì in avanti tutti sono convinti che i giovani abbiano contribuito decisamente alla diffusione del virus.

Dietro a queste diverse percezioni sulla responsabilità dei giovani vanno considerati però altri fattori, come quello economico (precarietà lavorativa dei giovani) e quello psicologico (bisogno di colpevolizzare qualcuno) e pure quello mediatico: «C’è un’enorme manipolazione delle informazioni, in televisione usciamo sempre litigando e incolpandoci a vicenda», ha detto un lavoratore dei media di 21 anni. Per quel che riguarda il lato economico, basti pensare che la disoccupazione in Spagna raggiunge il 15,3% della popolazione attiva, ma tra i minori di 25 anni arriva al 38,4%, una percentuale che dal 2008 non è mai scesa sotto il 30%.

Queste e altre considerazioni sono quelle che stimolano l’ardente difesa del professor Feixa riguardo ai giovani: «La frattura ha cominciato a forgiarsi nella fase di maggiore crescita economica neoliberista, tra il 1992 e il 2007, ed è esplosa con la crisi del 2008. L’unica cosa che ha fatto la pandemia è renderla visibile, con la particolarità di rendere colpevoli le vittime e non i “carnefici».

Per esempio, viene incolpato il presunto giovane irresponsabile che si diverte, ma non le autorità politiche e sanitarie che decidono di vaccinare i giovani per ultimi. Questo si ripercuote sul fatto politico (i giovani non hanno voce nel prendere decisioni), sociale (diseguale distribuzione della spesa sociale) e culturale (sentimento di abbandono e stigma). Io lo chiamo giovanicidio morale. È questa l’amara e dura conclusione del professor Carles Feixa Pàmpols.

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