Rose e gelsomini per un sorriso
«Il libro diceva che dopo la sua morte c’è stato una specie di pellegrinaggio… Arrivavano migliaia di rose, gelsomini e rosari che chi portava voleva toccassero il corpo minuto di Chiquitunga. Ecco da dove nasce l’idea». Così Delfín Roque (Koki) Ruiz Pérez spiega come si è ispirato per realizzare con ben 70 mila corone del rosario la grande pala dell’altare che raffigurerà il volto di María Felicia di Gesù Sacramentato nella cerimonia di beatificazione del prossimo 23 giugno.
Siamo andati a trovarlo nella sua casa-atelier, nella frazione Tañarandy della sua San Ignacio natale, terra della prima delle Reducciones, le missioni gesuite-guaraní del Paraguay. L’artista è un esponente della cosiddetta “arte ampliata” del tedesco Joseph Beuys, e come lui è convinto che «l’artista deve cercare l’arte tra la gente, non in un museo, poiché ogni essere umano ha in sé la capacità di creare». Il suo nome è stato almeno un giorno sulla bocca di tutti, grazie alla monumentale pala fatta di pannocchie, zucche, piccole noci di cocco e semi che ha adornato con imponenza l’altare della messa celebrata da papa Francesco durante la sua visita al Paraguay il 12 luglio 2015. La sua storia artistica è cominciata quando, giovane studente di architettura, decise di lasciare gli studi e dedicarsi alla pittura, da autodidatta. In un viaggio in Germania conobbe in una galleria, per caso, proprio Joseph Beuys che, mesi dopo, morì. Seppe allora che aveva conosciuto un artista famoso, si incuriosì e cominciò a leggere su di lui. «Rimasi impressionato, ma non fu allora che le sue idee mi conquistarono. Diciamo che rimasero latenti in me». Fino a quando ebbe occasione di metterle in pratica.
Nel 1992, in occasione dei 500 anni di presenza spagnola nelle Americhe, il comune di San Ignacio, dove Koki vive tuttora, gli commissionò un’opera. Decise di mettere in pratica i postulati di Beuys. «Da bravo artista giovane, ciò che avevo in mente voleva essere una critica che scavasse nel polemico “incontro tra due culture” che, in realtà, fu uno “scontro fra culture”». Studiando la faccenda, scoprì che il motivo di tale scontro non era stata l’imposizione di una civiltà “superiore” o di una religione, bensì «il diverso concetto e uso del tempo. Per gli europei, il tempo è lineare. Ai tempi dell’evangelizzazione e delle Reduccione, ci si alzava tutti i giorni alla stessa ora per andare poi a lavorare, a messa… “Per vivere degnamente e santamente”, dicevano i gesuiti. Invece, per i guaraní ogni giorno era diverso, e il tempo – anche quello atmosferico – dettava per che cosa quella giornata era propizia: per pescare, per cacciare, per l’artigianato… E poi c’era il tempo del raccolto del grano, quello della semina». Gli indios si ribellarono al concetto e all’uso del tempo che gli europei imponevano loro. «Dicevano che quel modo di vivere secondo orari fissi privava loro della libertà di vivere come viveva la selva», conclude Koki. La ribellione di alcuni capi che ne seguì fu la causa del martirio del primo santo paraguayano e de suoi due compagni spagnoli, i gesuiti Roque Gonzalez, Alonso Rodríguez e Juan del Castillo. Uno stregone convinse i capi tribù che la strada che avevano intrapreso insieme ai gesuiti era sbagliata proprio perché questi li avevano portati a vivere contro la natura. San Roque e i suoi compagni furono poi il “seme” che marcisce e da frutto nella meravigliosa esperienza delle Reduccione – cominciata dai francescani – che i gesuiti portarono all’apogeo: 30 villaggi abitati da alcune migliaia di guaraní e da due sacerdoti, che ospitarono in tutto anche 100 mila persone, con una fiorente economia, arte e cultura. Al punto che diedero fastidio ai potenti, che fecero finire tragicamente quell’Eden. Ma questa è un’altra storia.
Torniamo a Koki. «L’idea di quella prima opera collettiva era di far partecipare la gente del paese, farla pensare e creare insieme. Ma nessuno si interessò, né mi chiese nulla. Avevo fallito», dice tranquillamente. Tuttavia non si diede per vinto. Visitando le case dei vicini, capì che la religiosità popolare era l’elemento che li poteva unire in un «esercizio creativo collettivo». Esprimerla, farne arte, «era quello che la gente si aspettava da me» (cominciava infatti ad essere conosciuto per le sue mostre a livello nazionale e internazionale). Fu il suo eureka. «Mi mostravano i loro santi, le statuette che avevano in casa».
Così, la settimana santa di quell’anno fu una expo di elementi della religiosità popolare attorno alla processione della Madre dolorosa del Venerdì Santo. Insieme a un gruppo di vicini, resuscitarono gli antichi lumi fatti con mezze arance apepú svuotate e riempite di strutto. «Questo è l’aroma della nostra infanzia», dicevano. «Erano i profumi della memoria», chiosa Koki. Rivivevano le tradizioni che si credevano morte. Da anni, ormai, i negozi e i supermercati aprivano anche in settimana santa, vendevano alcolici come se niente fosse, e quei giorni erano utilizzati per visitare i parenti o fare turismo. L’iniziativa entusiasmò: «Venivano a casa e mi recitavano le preghiere tradizionali ormai sconosciute, o raccontavano che prima nel Venerdì Santo il silenzio era sacro, o almeno si parlava sottovoce e si esigeva dai bambini di non correre o saltare, e persino di non far rumore camminando per casa… «Si aprivano conversazioni infinite a questo riguardo. Ricordavano le ricette del karú guasú (la mangiata) del Giovedì Santo (perché poi bisognava digiunare!). Era la cultura della gente, radicata in profondità. Di questo si parlava. Queste cose erano presenti molto profondamente nella cultura della gente», conclude l’artista.
Poi scoprì gli estacionero. Anche questa una resurrezione. «Ce n’erano rimasti sette. E non cantavano perché la gente ormai si burlava dei loro abiti militaresco-medievali». Erano ormai lontani i tempi in cui, da giovani, si riunivano e portavano i loro cantici religiosi tra una stazione e l’altra, denominate “calvari” percorrendo a piedi l’yvaga rapé, il cammino che conduce al Cielo. Li attendevano gruppi di fedeli attorno a un altarino. Anticamente erano soli uomini, portavano copricapi da marinai, mantelline o fasce ed insegne, ed armati di croci, fiaccole e stendardi, intonavano canti che accompagnavano la passione del Signore, da un “calvario” all’altro. «Ma ci andavano di nascosto – seppe allora Koki –, per timore della gente, che li prendeva in giro». «E se vi preparo uno scenario?». Koki e i vicini confezionarono gli antichi abiti e lo scenario, il teatro delle prove del gruppo, che ben presto passò da sette a 20 personaggi, figli compresi. Il tocco finale furono i quadri viventi della passione. Immaginatevi la scena: arrivate nel tardo pomeriggio a San Ignacio, fate a piedi i pochi chilometri che conducono a Tañarandy e poi, calata la sera, seguite la strada di campagna che porta alla chiesetta, segnalata da due lunghe file di candele scavate nelle arance. Là in fondo, vicino alla chiesetta, lo scenario, i quadri viventi e poi la processione, guidata dagli estacionero. «Ogni anno l’evento cresceva d’importanza – ricorda Koki –. Chi vi veniva, raccontava poi a parenti ed amici, esagerando parecchio ciò che aveva visto, e così dovevamo impegnarci sempre di più per non deludere i pellegrini, sempre più numerosi».
Oggi, decine di contadini cominciano mesi prima a svuotare arance acerbe, a fondere strutto e a preparare pannocchie, zucche e semi per le pale dello scenario. «Ormai è una fonte di lavoro per loro, che devono mettere sul tavolo ogni giorno da mangiare per le loro famiglie. Ma la predisposizione e l’impegno sono encomiabili. Anziché ricevere i familiari in visita da Buenos Aires, devono stare qui, magari fino a tardi». Macarena, la figlia dell’artista, era bambina allora. Oggi dirige i lavori. Certo, l’enorme pala d’altare della messa del papa fu sensazionale. Koki poté salutare Francesco, che lo ringraziò di cuore e confessò di essersi emozionato, insieme ai ragazzi che avevano lavorato con lui. Nei giorni frizzanti dei preparativi si pensò che ciascuna delle 200 mila piccole noci di cocco che componevano l’opera recassero ciascuno un’intenzione scritta da fedeli spesso lontani. Koki aveva saputo di Chiquitunga, ed aveva accettato con piacere che un gruppo di suoi devoti scrivesse le richieste di intercessione alla giovane Serva di Dio. Ne scrissero 22.800. Quando si seppe della beatificazione, nel marzo di quest’anno, giunse all’artista la richiesta delle carmelitane scalze di realizzare una pala per la cerimonia. Sempre generoso e fedele alla sua concezione di “arte della gente e per la gente”, Koki, naturalmente, accettò. Si ricordò che gli avevano regalato due libri su di lei, li ritrovò e li lesse. «Da allora, ogni sera, con mia figlia, leggiamo qualche pagina del suo Diario intimo». Koki si dichiara «innamorato» della figura di questa giovane sorridente, generosa, buona ma anche tanto «normale».
Macarena è insegnante di teatro, disciplina attraverso la quale «insegna di tutto ai ragazzi: storia, letteratura, religione». Un giorno raccontò loro di Chiquitunga, e quando arrivò al punto del suo innamoramento, le ragazzine esclamarono in coro: «Ma allora era una di noi». «Era de verdad», dissero col loro impeto giovanile: era una giovane autentica, normale. Si innamorò, ma il suo amato decise di farsi prete. L’accompagnò con la preghiera e con un rapporto epistolare purissimo e soprannaturale. Finché, a 30 anni, dopo una gioventù spesa in una donazione a volte eroica ai bambini (era catechista), ai malati, ai poveri e ai carcerati, decise di entrare in convento. Le carmelitane scalze l’accolsero con gioia. Ma 4 anni dopo, una rapida malattia la portò dal suo Amato con l’A maiuscola. «Voleva amare Ángel Sauá per sentire di più l’amore di Gesù insieme a lui», sottolinea Koki. Era convinta che quella fosse la volontà divina. Quanto capì che era un’altra, non esitò a continuare ad accompagnare Angel sulla sua strada, continuando la sua, che non sapeva dove l’avrebbe portata. «Mi colpì questo rapporto, e l’amore a un Gesù vicino, davvero umano – confessa il pittore –. Il suo è un amore che mi conduce a Gesù, e mi riporta alla fede intera, bella e forte di mia madre». Mancano ancora più di 20 mila corone del rosario. E devono essere “pregate”. «Sarebbe stato facile chiedere soldi e ordinarli su misura, di plastica, made in China, ma non è quello lo spirito».
Ma nessuno dubita che arriveranno in tempo, e in abbondanza, per la gran festa del 23 giugno.