Roma mi spezza il cuore
Roma mi spezza il cuore, da sempre. Correre allo Stadio dei marmi, la mattina alle sei, mi riempie di gioia e di endorfine, ma tra casa mia e lo Stadio dei marmi c’è di mezzo il traffico. E le buche e i rifiuti e il disincanto della gente. E non è poco. Ma nemmeno tutto. Perché ogni volta che penso che vorrei andarmene lontano, mi viene in mente Moretti, con la sua vespa, quando dice: «Spinaceto… pensavo peggio!».
La scorsa settimana mi è capitato in mano un libro, che non è un libro su Roma ma un libro di poesie, un «canzoniere affettivo», come dice Gabriele Dadati nell’introduzione, che si intitola Amare essere amati (Pequod, 2022) ed è stato scritto da Vincenzo Lisciani Petrini, in cui dentro, per quello che capisco io, che di poesia non capisco niente, si parla di amore, o meglio, di amori. Tanti amori diversi: grandi, piccoli, buffi, disperati, dimenticati da qualche parte come le chiavi della macchina. Ce n’è di tutti i tipi, di amori, in questo libro, da quelli che strappano i capelli fino a quelli di chi mangia il radicchio alla finestra, contento di stare, d’estate, a piedi nudi.
E in mezzo a questi amori, al centro del canzoniere, c’è una parte che si intitola Palinsesti per adulti mancati, in cui si parla di una Roma che mi è particolarmente cara e che ricorda tanto quella dei miei anni universitari. È una città che di giorno corre per via dei Marrucini e via De Lollis e la notte si sofferma sotto i lampioni della stazione Termini e si perde in una San Lorenzo furiosa (di notte, quando mai non è stata furiosa San Lorenzo?).
Gli appartamenti descritti sembrano quelli degli studenti fuori sede: i vestiti lasciati in terra, i coinquilini rumorosi, i piatti nei lavelli. E le emicranie liquorose (quando Lisciani scrive: «La testa è un’ampolla per pesci e abissi» mi è venuto in mente Garcia Lorca: «le tue parole – pesciolini – nuoteranno tutto intorno»).
E poi la metro. La mia amata metro. Io, soprattutto della Metro B sono innamorato, quella che ormai non funziona quasi più; sono innamorato del nome delle sue fermate, dei vagoni quasi sempre senz’aria condizionata, delle persone che leggono sulla banchina, di quelle che guardano i video sui telefonini e ridono da sole, di quelle che, dirette a Laurentina, prendono appunti per un libro di poesie: «Guarda: nei tuoi occhi e negli altri / sono accese le finestre di tutte le case – Penelopi che vegliano i ritorni. È bello salutarti e sapere che sei attesa».
È fatta di una bellezza, Roma, che quando ci penso mi ritrovo quasi sempre a canticchiare quella canzone di Paolo Conte: «E la sensualità delle vite disperate, ecco il dono che ti farò».
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