Roma dopo la sentenza su Mafia capitale
Dopo due anni di dibattimento, il 20 luglio 2017 la decima sezione penale del tribunale di Roma ha emesso significative condanne nei confronti degli appartenenti delle organizzazioni malavitose risalenti all’attività di Massimo Carminati, noto esponente della destra eversiva, ben presente nella Capitale. Si tratta tuttavia, secondo i giudici, del capo di un’associazione a delinquere semplice e, quindi, non mafiosa. In tutto 250 anni di pena inflitti a 41 su 46 imputati. Cinque le persone assolte, tra le quali direttore generale dell’Ama, Giovanni Fiscon, l’ex sindaco di Castelnuovo di porto, Fabio Stefoni, e due presunti esponenti ‘ndraghetisti.
Nell’inchiesta, coordinata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, è emerso un disegno criminoso che vede in prima linea Salvatore Buzzi (19 anni di reclusione contro i 20 di Carminati), referente della cooperativa 29 giugno ed esponente di un forte intreccio del terzo settore cresciuto intorno ai servizi per la pubblica amministrazione, come ad esempio l’accoglienza dei migranti. Di questa ragnatela, capace di corrompere pubblici funzionari ed esponenti politici oltre ad esercitare un potere intimidatorio sul territorio, i magistrati inquirenti avevano ravvisato gli estremi dell’associazione di carattere mafioso che comporta l’applicazione delle misure straordinarie previste dalla legge. La tesi accusatoria è stata contestata non solo dagli avvocati di Buzzi e Carminati. Ad esempio Giuliano Ferrara ha criticato fin da subito l’impostazione dell’inchiesta istruita, a giudizio del fondatore de Il Foglio, da magistrati estranei al contesto romano, molto lontano dalla cultura mafiosa vera e propria. Non è in dubbio la gravità degli atti posti in essere, che mostrano una corruzione diffusa che colpisce anche esponenti finora considerati esempi di imprenditoria sociale, vicini alla sinistra politica come il sistema dellle cooperative di Buzzi. Ma si tratterebbe, secondo il romano Ferrara, delle azioni di una delinquenza abituale, storicamente radicata nel “fondo limaccioso” della Capitale e con volumi di affari tutto sommato marginali in confronto al flusso di denaro che si muove, ad esempio, negli appalti per le grandi opere. Insomma, conclude Ferrara, Roma può essere cinica e spietata ma “non è mafiosa”.
La presenza delle mafie
Il danno di immagine subito dalla città, a causa di un’inchiesta denominata Mafia Capitale, è incalcolabile secondo Fabio Rampelli, Maurizio Gasparri e Francesco Giro, esponenti di centro destra e della destra capitolina. Ma anche Roberto Giachetti del Pd ha avvertito che «da ora in poi chi accosterà la parola mafia a Roma dimostrerà di non amare la città»
Si resta ora in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza e la scelta eventuale dell’accusa di ricorrere in appello.
Ad ogni modo la sentenza non costituisce un verdetto di carattere generale sulla presenza della mafia a Roma, ma si limita a definire che l’associazione a fini criminali riconducibile a Carminati e Buzzi non è di stampo mafioso.
Secondo Rosi Bindi, presidente della commissione interparlamentare antimafia, intervistata da Toni Mira su Avvenire, «le mafie con la carta d’identità, cioè cosa nostra, ’ndrangheta, camorra e perfino sacra corona unita, a Roma ci sono. E da sempre con un patto di non belligeranza tra di loro. E con un collegamento con quella che io chiamo sempre mafia, cioè la banda della Magliana». Una tesi comunemente esposta da magistrati come Giancarlo Capaldo, responsabile fino al 2012 della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, che ha ritenuto opportuno pubblicare proprio nello stesso anno di fine incarico un libro intitolato “Roma mafiosa” per descrivere « l’unica città dove le cosche campane, calabresi e siciliane e la malavita organizzata locale possono fare affari insieme senza entrare in conflitto». Secondo Capaldo, «nella Capitale le cosche non impongono il controllo del territorio come in Campania o in Sicilia, non si dedicano alle estorsioni o ai regolamenti di conti. Qui da noi abbiamo il vertice, il gotha delle organizzazioni».
La Bindi invita a non fare questioni nominalistiche perché la sentenza pronunciata nell’aula bunker del carcere di Rebibbia ha messo in evidenza l’esistenza a Roma di un «sistema criminale corruttivo associativo molto grave che ha coinvolto pezzi della società civile, la politica in maniera trasversale, la pubblica amministrazione sfruttando una delle più grandi fragilità di questa fase storica». Senza scordarsi,comunque,che Ostia, un municipio romano di 300 mila abitanti, è stato sciolto per infiltrazioni mafiose e comunque, alzando lo sguardo, mentre la Lombardia è la quarta regione per presenza di ‘ndrine.
La sentenza lascia perplessi l’associazione Libera che ha la sede nazionale in un immobile confiscato alla mafie e situato a due passi dalla sede del Quirinale ed è stata in prima fila nel denunciare coraggiosamente la presenza di clan mafiosi sul litorale romano. Secondo don Luigi Ciotti, presidente di Libera, il segnale evidente di una presenza mafiosa consiste nell’avere una città con un altissimo indice di presenza di droghe che solo la mafia è in grado di controllare. Lo conferma anche Matteo Orfini, presidente del Pd e commissario del partito a Roma: «basta passeggiare nei tanti quartieri in cui le piazze di spaccio sono gestite professionalmente, con tanto di vedette sui tetti e controllo militare del territorio. Basta spingersi a Ostia e seguire le attività degli Spada, o andare dall’altra parte della città dove regnano i Casamonica» arrivando a dire «da romano innamorato della mia città: a Roma la mafia c’è. Ed è forte e radicata».
Chi ha avuto modo di seguire le udienze del processo direttamente o tramite le registrazioni su radio radicale ha potuto rendersi conto della sicumera esibita dagli imputati e dai loro avvocati oltre al groviglio con il mondo politico confermato dalle condanne di esponenti della destra (Gramazio) e del Pd (Coratti). Un dato di fatto che spiegherebbe in parte, secondo alcuni, la vittoria dei M5S all’ultima elezione comunale e la presenza in aula al momento della sentenza da parte della sindaco Virginia Raggi che ha parlato di «vittoria dei cittadini, della società civile e della legalità sulla criminalità, sul malaffare e sulla vecchia politica».
Il brand e il futuro della città
Al di là della lettura del contenuto della sentenza, restano i segni di una città ferita che deve ancora alzarsi in piedi, ma che non può farlo senza una presa di coscienza collettiva di un male che resta da debellare. Secondo il fratello Sergio, intervistato dal quotidiano Il Tempo, Massimo Carminati rappresenta un brand perfetto da vendere alla stampa. Ma anche per Tommaso Cerno, direttore de L’espresso, «in Italia erano in molti a volersi levare di torno Carminati, come è stato, ma a non voler scoperchiare il marcio che nasconde quel suo “mondo di mezzo”». Il neofascista di Roma Nord, mai pentito e dal passato inquietante, è al centro delle inchieste di Lirio Abbate sul settimanale del gruppo De Benedetti che gli ha dedicato la famosa copertina del 2012 sui “4 re di Roma”( Carminati, Spada, Senese e Casamonica).
Forse i cosiddetti re sono di più ma si possono detronizzare non solo con i necessari strumenti giudiziari ma «con il risveglio delle coscienze, l’orgoglio di una comunità che antepone il bene comune alle speculazioni e ai privilegi, contrastando in tutte le sedi la criminalità organizzata e i suoi complici».
Dopo la sentenza, quindi, non si può passare oltre e dire “la mafia non esiste”. Una frase che ha provocato molti danni nella nostra storia. Purtroppo, come afferma il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, in un’intervista in uscita ad agosto su Città Nuova, «nel nostro Paese la lotta alla mafia non è stata una priorità dichiarata e soprattutto praticata da alcun Governo».