Roma, città del dolore
Sulla mia pelle di Alessio Cremonini è un film struggente. Una Roma periferica dove vive Stefano Cucchi, che si droga, tenta di uscirne e ci ricasca. La famiglia lo ama, in particolare la sorella, forte e tenace. Una notte viene sorpreso da un pattuglia di carabinieri, gli trovano della droga, ma lui non è uno spacciatore. Prigione, percosse terribili da parte dei carabinieri. Carcere e ospedale, processo dove non ha il coraggio di svelare il motivo del suo stato di salute grave, tanto viene minacciato e poi chi gli crederebbe. La giustizia umana e la burocrazia indifferente seguono il loro corso. Stefano sta male, non si riesce a difendere. È gracile, impaurito, solo. La famiglia non può vederlo: il regolamento lo vieta. Così per una settimana dove ben 140 persone tra giudici infermieri guardie vengono a contatto con lui. Lo trovano morto il 22 ottobre 2009. Inizia il processo: tutti assolti. La sorella insiste, altro processo, due carabinieri condannati. Ma la battaglia continua: molti misteri avvolgo la fine del trentenne di Tor Pignattara, che parla solo in romanesco, è magrissimo e buono d’animo. Il film certo denuncia questa e le tante morti misteriose in carcere.
Ma pone in evidenza con una lucida capacità di sintesi la via dolorosa di questo povero Cristo periferico, così che il film diventa una Passione laica, una Via Crucis del condannato dall’indifferenza e dal cinismo. E Roma la città dove il dolore può essere grande e non venire compreso, come lo schianto dei genitori cui una burocrazia disumana vorrebbe impedire anche di vedere il cadavere straziato del figlio. È l’altra faccia di Roma che nel film si fa simbolo, immagine dell’umanità povera, lacerata dalla sofferenza e dalla mancanza di cuore, nel caso da parte di persone dello Stato. Gli interni claustrofobici che sfilano come scomparti di un polittico dalle tinte spente e cupe comunicano l’idea della morte che avanza a spegnere le vite della gente indifendibile perché non ricca, non bella, non potente, come l’onesta famiglia di Stefano travolta dalla Passione del figlio. L’interpretazione asciutta, tesa quasi disperata di Alessandro Borghi è commovente e autentica, dà l’anima di Stefano, come pure quella di Jasmine Trinca come sua sorella. Ma tutto il film è un ritratto gonfio di lacrime sulla morte ingiusta causata dall’indifferenza, che Roma sembra non voler più nascondere ma dire al mondo.
Pur su di un registro assai diverso, cioè onirico e surreale quale è quello de La profezia dell’armadillo di Emanuele Scarinci, Roma appare ancora la città-simbolo di una gioventù smarrita, che soffre senza saper bene il motivo e non sa dove andare. Il dolore reale ma subìto. Magari con un tantino di leggerezza e ironia. I due trentenni Zero e Secco vivono in periferia, a Rebibbia, il primo fa il disegnatore e altre cose, il secondo nulla. La morte della compagna di scuola Camilla li scuote. Al funerale, vengono a contatto con la Roma diversa, quella ricca, mondana, da cartolina. Non è per loro, che si sentono tagliati fuori. Ma almeno prendono coscienza dolorosamente che si deve crescere. Ce la faranno? Piccolo film ma con temi di riflessione (l’armadillo) intermittenti, getta ancora una volta lo sguardo su Roma-periferia come specchio di emarginazione di una grossa fetta di umanità.