Roma apre con Simone
La nuova stagione del Teatro dell’Opera ha aperto con il "Simon Boccanegra" di Verdi. Scelta indovinata nell’anno anniversario del maestro di Busseto, ancor più perché è la prima volta che Riccardo Muti, il suo maggior interprete attuale, la dirige a 70 anni. Una lezione di onestà intellettuale e di stile per alcuni giovani direttori che affrontano Verdi con troppa furente superficialità. Verdi infatti è autore che va digerito pian piano, altro che il zum-papa della tradizione.
"Boccanegra" è opera difficile. «Un tavolo zoppo», lo dichiarava l’autore dopo il simil-fiasco del 1857, così da rifarlo, con la collaborazione librettistica di Boito, nel 1881.
Quando già c’erano stati "La forza del destino", "Don Carlo", "Aida" e il "Requiem". E si sente. La strumentazione è quanto mai raffinata, la linea del canto tende al declamato melodico, le arie – poche – sono per così dire “scolpite”. Il dramma è fosco, cupissimo, una tragedia scespiriana di amore contrastato, e soprattutto di passione politica. Boccanegra è dramma virile, di lotta di vecchi – Boccanegra e Fiesco –, di fanciulle innamorate che sfidano la morte, di congiure e di sommosse popolari. Verdi guarda al risorgimento plebeo con l’occhio di una unità italiana deficitaria e pessimistica. Si sprofonda ancora una volta nel rapporto padre-figlia come nel "Rigoletto", ma qui si direbbe più essenziale, scavato, con sottigliezze psicologiche acutissime e rapide.
"Boccanegra" è un’opera di generazioni di coetanei che non si amano – i vecchi rancorosi –, di giovani che soffrono ma vincono, di nobili e popolani che si combattono.
Ma dentro e dopo tutto, è un’opera di sconvolgente, quasi disperato, anelito alla pace. Non per nulla sono il mare e la notte i coprotagonisti, dentro cui Boccanegra grida: «…E vo gridando pace, e vo gridando amor», e poi muore in un «più che pianissimo» struggente, che ricorda il finale del "Requiem". Una pace indistruttibile, finalmente raggiunta. Non è la pace wagneriana del nulla, ma il riposo virile di chi ha sofferto per amore: di donna, di figlia, di patria.
Di fronte a un lavoro composito al punto da far tremare qualsiasi interprete coscienzioso, perché nulla regala al facile edonismo nel canto e nell’orchestra, Muti ha lavorato di cesello in modo, bisogna dirlo, mirabile. L’orchestra fin dalle prime battute “marine”, attraverso le cavalcate tremolanti degli ottoni in seguito, i flussi sotterranei degli archi, il canto ora lieve ora triste dei legni (il primo clarinetto), la cupezza dei contrabbassi, ha cantato – come si deve sempre fare con Verdi – dall’inizio alla fine nei chiaroscuri dei concertati lunghi e intensi, nelle sfumature delle arie accompagnate e nei recitativi declamati in uno stile si direbbe "gregoriano".
Un fremito nervoso ha percorso l’orchestra sotto la bacchetta attentissima di Muti che ha fatto emergere esplosioni incandescenti, boati terribili, accordi aerei e quel canto dei violini così “italiano” – “toscaniniano” – da far rabbrividire e commuovere. Il grande finale della morte pubblica di Simone è stato reso con un tale pathos da far venire i brividi: si sentiva che tutto era vero, che ancora una volta Verdi scuoteva il cuore e l’anima.
In una edizione così singolare, le scene di Dante Ferretti, fra Medioevo e Rinascimento, dai notturni lividi alle marine brillanti hanno “recitato” con equilibrio insieme alla regia composta e nobile di Adrian Noble. Grande spettacolo di equilibrio scenico e musicale. Di passione focosa, ma sempre controllata.
E veniamo al cast: la voce toccante di Maria Agresta (Maria), lo Jacopo forte di Dmitri Beloselskiy, il Paolo melodioso di Quinn Kelsey e il Simone di George Petean, intenso nella recitazione e nella voce calibrata e in sintonia col direttore. Gran squadra, contando anche il Gabriele di Francesco Meli, voce squillante ma con qualche segno di usura.
Melodiosa la presenza di un coro perfetto. Si replica fino all’11/12.