Roma 1215
Caput ecclesiarum, “Madre e capo di tutte le chiese”, e sede della cattedra del vescovo di Roma, il papa, la basilica di San Giovanni in Laterano fu eretta per volere dell’imperatore Costantino. I lavori della fastosa aula rettangolare divisa in navate, simile alla coeva San Pietro, si protrassero per soli sei anni fino all’inaugurazione nel 318. Collegata ad essa era il Palazzo apostolico (il Patriarchìo); tutt’intorno sorsero il battistero, cappelle, cortili, archi, triclini, dove il pontefice, durante le solennità religiose, riuniva il clero e le rappresentanze del popolo. Questo complesso costituì, rispetto al centro città, una sorta di borgo appartato nel quale si svolse tutta la storia pontificia del Medioevo fino al trasferimento della sede papale ad Avignone.
In seguito ai restauri e alle radicali trasformazioni rese necessarie lungo i secoli dalle devastazioni di due incendi, l’aspetto attuale della cattedrale è ben diverso da quello primitivo. Capolavoro di Francesco Borromini è il luminoso interno in stile barocco, commissionato da papa Innocenzo X (1644-55), mentre la nuova maestosa facciata in travertino venne edificata da Alessandro Galilei tra il 1732 e il 1735. Gli ultimi importanti lavori, riguardanti la ricostruzione del presbiterio e dell’abside, furono commissionati a Francesco Vespignani da Leone XIII (1878-1903).
A testimoniare gli splendori della basilica medievale rimangono il chiostro costruito dai Vassalletto tra il 1215 e il 1232, il pavimento cosmatesco della immensa aula, il ciborio, il mosaico absidale (malgrado le trasformazioni ottocentesche) e l’affresco giottesco nella Loggia del Giubileo, così chiamata perché da essa papa Bonifacio VIII proclamò nel 1300 il primo Anno Santo.
Ventidue sono i pontefici che hanno trovato sepoltura in San Giovanni. Tra loro, Innocenzo III (Lotario dei conti di Segni), morto nel 1216 a Perugia, sede all’epoca della curia romana, la cui salma Leone XIII fece traslare nel 1891 dal sepolcro nella cattedrale umbra in quello attuale, opera dello scultore Giuseppe Lucchetti.
Piccolo e gracile, austero come può solo essere un vero asceta, ma incredibilmente energico e animato da un’unica passione – la Chiesa –, Lotario salì al soglio di Pietro a soli 38 anni, succedendo al quasi centenario Celestino III. Coltissimo (aveva studiato teologia a Parigi e diritto a Bologna), ancor prima di diventare cardinale era già molto noto tra i contemporanei quale autore di un’opera, Il disprezzo del mondo, vero best seller fino al Seicento sul quale avrebbe meditato anche Pascal. In esso il tema della “fuga dal mondo“, già caro agli antichi padri del deserto, veniva ripreso e approfondito da Lotario, per il quale l’uomo era «preda del peccato prima ancora di peccare, e dell’errore prima ancora di errare».
In un mondo così corrotto, dove l’uomo viveva esposto a ogni sorta di pericoli, compito del clero era isolarsi dal peccato in uno stato di superiorità rispetto ai fedeli laici. Quanto al vicario di Cristo, reso dal sacro suo ruolo inferiore solo a Dio e con un potere spirituale superiore a quello temporale, aveva la plenitudo potestatis, e con essa la facoltà di conferire l’investitura all’imperatore, considerato soltanto come advocatus Ecclesiae, nonché di intervenire nelle beghe e nelle questioni politiche dei sovrani europei. Date queste premesse, va da sé che sotto il pontificato di Innocenzo III la Chiesa, indipendente da ogni altro potere, raggiunse l’apice della sua autorità e che nella stessa Roma ogni autonomia cittadina rimase soffocata.
La figura di questo papa che, assommando in sé l’uomo di preghiera e il politico consumato, fu tra i più grandi pontefici del Medioevo, primeggia ora nel romanzo storico Roma 1215 (Edizioni Domenicane Italiane), la cui serietà è garantita dall’autrice Sonia Pelletier Gautier, docente di storia medievale e di geografia.
Perché il 1215 del titolo? Perché proprio in quell’anno Innocenzo III convocò il quarto Concilio lateranense, uno dei più importanti della storia della Chiesa per numero e rilevanza delle questioni affrontate, sia di carattere dogmatico che disciplinare. A questa che fu la quinta assise del genere dopo lo scisma d’Oriente presero parte un numero eccezionale di prelati (oltre 400 tra vescovi e arcivescovi, circa 900 tra abati e badesse) e, novità assoluta, i rappresentanti laici di vari sovrani, cui si aggiunsero quelli dei comuni lombardi.
Aperti l’11 novembre dal papa con un’accorata allocuzione introduttiva, i lavori vennero conclusi il 30 dello stesso mese con l’approvazione, da parte dei padri conciliari, di 71 canoni riguardanti alcune questioni dibattute e cruciali per tutta la cristianità, tra cui l’autorità papale, l’eresia catara e la nuova crociata per liberare i Luoghi Santi; canoni già formulati e decisi da Innocenzo III, ciò che non deve stupire in un’epoca che, come accennato prima, riconosceva nel papa il capo supremo non solo della Chiesa, ma anche, in qualche modo, della società civile.
Protagonista del romanzo, che abbraccia l’intera durata del Concilio, è dunque Innocenzo III. Nel tracciarne il profilo, la Pelletier Gautier sembra aver presente l’opera riformatrice di papa Bergoglio: «Giurista esperto, teologo autore di libri liturgici, sensibile alla predicazione, il papa vuole riformare la Chiesa in profondità ed ha già instaurato in Curia una austerità e un rigore spesso mal visti dai prelati abituati ai privilegi e perfino ad un comportamento lassista».
Il testo risulta strutturato in tre periodi di una settimana, vissuto ciascuno secondo la prospettiva di un personaggio chiave: il conte Pedro di Castiglia, il cancelliere del re di Francia fra Guérin e il cancelliere pontificio Tommaso. «Oltre a qualche figura secondaria – avvisa l’autrice –, solo il personaggio di Pedro e della sua famiglia sono totalmente inventati, ma le condizioni storiche sono state strettamente rispettate quanto al ruolo sociale e al loro modo di comportarsi».
Personaggio principale, oltre a Innocenzo III, è Domenico di Guzmán, fondatore dell’Ordine dei Predicatori (meglio noti come Domenicani), la cui presenza al Concilio, attestata da tutte le fonti conosciute, «ha come unico obiettivo di far riconoscere l’Ordine che vuole creare, ancorato sulla Parola e sulla Povertà, dotato di una propria regola, al quale ha già messo delle fondamenta concrete ed efficaci nel contesto della crociata contro gli Albigesi (che più tardi saranno chiamati “catari”), con il sostegno incrollabile di Foulques, vescovo di Tolosa, che vede in questa comunità un’armata di missionari diocesani utili per sradicare l’eresia dei “perfetti”».
Nonostante Innocenzo III apprezzi e stimi Domenico, egli non può approvare il suo Ordine: un canone dell’appena concluso Concilio vieta infatti la fondazione di nuove congregazioni e invita quanti desiderino consacrarsi a Dio a inserirsi in una di quelle già esistenti.
Il romanzo, che fa rivivere la Roma e il palazzo pontificio in uno dei periodi più torbidi della storia d’Europa, è movimentato anche da morti sospette, complotti e indagini di polizia come in un thriller. Memorabili le pagine finali che riportano il colloquio tra il papa affaticato dai lavori conciliari e il futuro santo, al quale egli affida una consegna: «Dedicati alla conversione degli eretici albigesi, affinché la violenza – quella dei prìncipi e dei prelati – non sia la sola padrona della situazione».
Le ultime parole di Innocenzo III nel congedare Domenico, manifestamente deluso dal suo amichevole diniego: «Ti voglio bene, Domingo. Ma non insistere! Proprio perché il papa può tutto, non può permettersi tutto». Tuttavia gli apre uno spiraglio di speranza: «Ritorna dai tuoi frati e vieni di nuovo da me per dirmi quale regola avete scelto!… Allora beneficerai di tutto il mio appoggio».
La regola domenicana sarà approvata un anno dopo con la bolla Religiosam vitam del 22 dicembre 2016: non da Innocenzo III, morto il 16 luglio, ma dal nuovo papa Onorio III, cui toccherà anche organizzare la quinta crociata.