Rohingya, l’odissea continua
È stato definito «il più grande campo per rifugiati al mondo», quello di Kutupalong in Bangladesh, nel distretto di Cox’s Bazar, che ospita, secondo le ultime stime, circa 600 mila profughi di etnia rohingya: gli altri sono ospitati a Nayapara, l’altro campo per rifugiati, sempre a Cox’s Bazar. In tutto un milione di persone. Considerando i circa 200 mila arrivati prima del 2017 e i circa 742 mila che dal 25 agosto 2017 si sono aggiunti, si arriva presto a un numero davvero impressionante di gente racchiusa, ormai, in un’unica zona, senza i servizi basilari come acqua, istruzione, gabinetti, strade o fornelli per cucinare. I rohingya, che per il 40% hanno un’età sotto i 12 anni, sono in maggioranza donne e bambini (ed anziani), e sono giunti in Bangladesh con niente: solo i pochi stracci che avevano addosso. Un distretto, quello di Cox’s Bazar, già fin troppo noto, con la spiaggia Sea Beach, la più lunga al mondo: 120 chilometri.
I rohingya, da ormai due anni ammassati a Kutupalong e Nayapara, non hanno nessuna speranza di tornare in Myanmar, alle loro terre. Non si può dire “alle loro case”, perché quelle, ormai, non esistono più: dopo il 25 agosto 2017 il fuoco appiccato per scacciare la gente ha distrutto le capanne, e una volta fuggiti (oppure uccisi) i loro abitanti, le scavatrici hanno in molti casi eliminato le prove. Come riportano The Guardian e Washington Post, si tratta di una vera e propria pulizia etnica, come documentato anche da alcune organizzazioni non governative.
Le Nazioni Unite, dal 2018 (dopo le inchieste eseguite ascoltando i profughi a Kutupalong) parlano esplicitamente di genocidio. Basti solo un esempio: il villaggio di Tula Toli con 4.300 abitanti fino al 28 agosto 2017, nello stato del Rakhine, in Myanmar. Due fuggitivi che si erano rifugiati in Bangladesh sono riusciti di nascosto a ritornare in Myanmar dopo due anni dal massacro e a scattare alcune foto, come riporta The Observer. I video e le foto scattate mostrano come al posto delle case di Tula Toli oggi ci sia una foresta, con pochi resti di quello che era il villaggio. Anche le foto satellitari eseguite dal maggio all’ottobre 2018, mostrano cambiamenti del paesaggio: le case non esistono più. La comunità internazionale da mesi fa pressione sul governo del Myanmar, dove i militari del Tatmadaw continuano ad avere una grande autonomia di movimento e decisione: in pratica, non sono sotto la giurisdizione e il controllo del governo della premio Nobel Aung San Suu Kyi: i capi militari operano autonomamente, in base alla cosiddetta “regola per la sicurezza nazionale”. Portare il Tatmadaw sotto le leggi di un governo civile e democratico è praticamente oggi impossibile, vedendo anche gli esempi nei Paesi limitrofi, dove i militari sono svincolati da qualsiasi controllo civile e non devono render conto a nessuno del loro operato di intelligence.
Nei mesi scorsi il governo del Myanmar, appoggiato anche da quello del Bangladesh, ha cercato di redigere una lista dei rohingya che sarebbero stati rimpatriati volontariamente in Myanmar: dei 3 mila esistenti sulla carta, nessuno si è presentato per la partenza. I rohingya chiedono, come condizione per varcare di nuovo il confine verso casa, che i responsabili dei massacri siano portati davanti a un tribunale internazionale; e soprattutto che venga riconosciuto il diritto di cittadinanza a tutti i rohingya che si sono rifugiati in Bangladesh. Questo è un punto essenziale per il ritorno. Il tentativo nei mesi estivi di quest’anno di utilizzare un nuovo tipo di carta d’identità, la “carta di verifica nazionale”, è completamente fallito, in quanto sarebbe stata sancita definitivamente l’appartenenza all’etnia rohingya (non annoverata tra le 135 ufficialmente riconosciute dal governo del Myanmar). In pratica la carta era solo un trucco per schedare tutti gli appartenenti a questa “etnia straniera rohingya”.
I profughi non hanno accettato questo ennesimo tentativo di risolvere “la questione Rohingya”, e il processo è fallito. I rohingya (musulmani) sono infatti considerati sia dal governo che dalla popolazione (prevalentemente buddhista) bengalesi, cioè infiltrati dal Bangladesh ed estranei alla storia, alla religione e alla cultura del Paese. Uno scontro aspro, quello tra i profughi, la popolazione buddhista del Myanmar e il governo di Naypyitaw. Una notizia recente: il primo ministro del Bangladesh, la signora Sheikh Hasina, come riporta il sito Ary News, ha accusato il governo del Myanmar di non fare abbastanza per convincere ed assicurare, con i fatti – non solo il milione di rohingya in Bangladesh, ma tutta la comunità internazionale –, che i rifugiati possano ritornare alle loro terre nello Stato del Rakhine, senza paura di essere uccisi.
Alcuni soldati del Tatmadaw, dei “pesci piccoli”, probabilmente saranno processati per il genocidio dell’agosto del 2017: ma appare ancora troppo poco. I pesci grandi, cioè i generali e gli ufficiali del Tatmadaw, difficilmente saranno processati: lo dice la storia degli ultimi 70 anni di questo Paese. A complicare la situazione ci sono anche i militanti del A.A. (Arakan Army), una fazione di guerriglia (buddhista) che combatte il Tatmadaw per l’indipendenza dello Stato del Rakhine e che aumenta l’instabilità della regione in questione, rendendo il rimpatrio dei Rohingya ancora più difficile. L’A.A. non potrebbe essere un’arma del Tatmadaw per impedire il rientro dei rohingya?
I rohingya restano dunque a Cox Bazar, anche se si pensa non per molto tempo ancora: si deve trovare una soluzione diplomatica urgente tra tutte le parti in questione. La comunità internazionale lo esige ogni giorno sempre di più.