Rocco, il ferroviere del pane

Aspetta la chiusura dei panifici, raccoglie quanto avanzato e lo distribuisce ai poveri della città. «Lo faccio per Dio» risponde con semplicità a chi gli domanda il perché. Lo abbiamo incontrato preparando il reportage su Foggia in uscita sulla rivista Città Nuova
Un povero riceve del pane

Foggia, assolato primo pomeriggio e temperatura tiepida di un insolito fine gennaio Conosco Rocco mentre concludiamo il pranzo da Maria e Giuseppe. Sulla loro tavola sono imbandite le specialità pugliesi: orecchiette, cime di rapa, pesce e arance profumatissime. Il dolce però è Rocco. Arriva a fine pranzo con due occhi chiari penetranti e al contempo ingenui e birichini. Settantadue anni, ex ferroviere. Per lui la linea ferrata lombarda e poi quella pugliese non hanno segreti. In pensione dai treni, Rocco è diventato contadino per soccorrere un amico in difficoltà nella coltivazione dei campi. Gli ha salvato l’azienda e lo ha sottratto alla spirale mortale dell’usura.

Le sue mani, ruvide e forti, portano i segni della terra. I suoi ritmi di lavoro sono scanditi, non solo dalle stagioni, ma dagli orari di chiusura dei panifici: Rocco infatti ogni giorno raccoglie il pane avanzato e lo distribuisce ai poveri fermi al semaforo o che rovistano nei cassonetti. Poi c’è la consegna a domicilio nelle abitazioni di alcuni indigenti.

Il pane è anche per i tanti immigrati che, dal vicino centro d’accoglienza, vagano in città nell’attesa di un permesso di soggiorno o del riconoscimento di rifugiato: ad uno di loro, senegalese, ha offerto la casa di campagna oltre che la possibilità di aiutarlo nei campi. Il pane di Rocco è il Vangelo: «Non si può fare diversamente, o no?» mi risponde con il tipico accento foggiano. Eppure non tutto gli è sempre andato bene. Brucia ancora la ferita provocata da un giovane del Marocco a cui aveva offerto la casa colonica dell’azienda in cambio della cura e della ristrutturazione. In quei mesi invece l’ozio aveva prevalso e così l’incuria, tanto che Rocco era stato costretto a mandarlo via. Fatica nel raccontarlo ancora oggi, nonostante siano trascorsi parecchi anni dal fattaccio.

Eppure non si è arreso: «Io lo faccio per Dio – mi ripete –  anche se mi maltrattano e non sempre arrivano le risposte che vorrei». Questa scelta l’ha maturata durante uno dei suoi originali blitz di solidarietà. Nel 1985, dopo il terribile terremoto del Messico, decide insieme ad altri amici del Movimento dei focolari di rivendere la carta, raccolta in giro per le case per poi inviare i soldi alle popolazioni colpite. Appena finito di caricare un furgone, una macchina lo investe e gli spezza le gambe. Il ricovero, l’intervento, la lunga degenza e la decisione ferma che «per Dio si può lavorare anche con le gambe rotte». Sposato con Nella da 43 anni, mentre mi accingo a partire dalla sua città mi raggiungono con un’enorme busta di verdura di campo e alcune specialità fatte in casa. Rocco l’ha raccolta con quelle mani ruvide da contadino e l’ha scelta con la delicatezza e la precisione di un chirurgo o di uno che quando si tratta di aiutare gli altri va sempre nel dettaglio.

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