Roberto Calasso e gli Adelphi
Cominciai ad apprezzare che ero adolescente quella carta ambrata, leggermente ruvida e pesante abbastanza da non gualcirsi, quell’incontro che aveva sempre lo stesso profumo agrodolce, quasi fruttato, quel carattere, Baskerville, sempre identico a sé stesso e sempre originale, quelle copertine minimaliste, quelle due collane “banali” e numerate, quelle rilegature in sedicesimi perfette: dei veri e propri oggetti che fa immensamente piacere maneggiare.
Costavano, quei libri, mettevo da parte le cento lire per comprarne qualcuno. Ancor oggi, nelle inevitabili tappe in libreria, passo immancabilmente dinanzi alle scansie che ospitano ben allineati “gli Adelphi”. Proprio l’altro ieri, nel giorno della morte del suo fondatore, Roberto Calasso, ne avevo comprati un paio. Alla cassa, la cassiera mi aveva allungato un sacco di tela marchiato Adelphi. «I tempi son cambiati – mi ero detto −, ma quella borsa di tela non era male, una tela grezza e robusta. Calasso, però, non avrebbe mai accettato una banalità commerciale come un gadget. Non sapevo che stava morendo. RIP.
Qualche tappa di una vita: frequenta il liceo Tasso; laurea in letteratura inglese con Mario Praz; 1962, assieme ad altri giovani intellettuali, tra cui Roberto Bazlen e Luciano Foà, immagina l’editrice Adelphi; 1971 direttore editoriale Adelphi; 1990 consigliere delegato Adelphi; 1999 presidente Adelphi; 1966 traduce Il racconto del pellegrino di sant’Ignazio; 1969 traduce Ecce homo di Nietzsche; 2004 traduce gli Aforismi di Zürau di Franz Kafka; 1983 pubblica La rovina di Kasch; 1988 pubblica Le nozze di Cadmo e Armonia; nel 1996 Ka; nel 2002 K., sull’opera dell’amato Kafka; e poi altri libri, fino all’ultimo, La tavoletta dei destini nel 2020. Insegna in varie università, riceve una carrettata di premi; è membro di molti circoli letterari esclusivi; ha sposato una scrittrice svizzera e una seconda tedesca. È morto il 28 luglio 2021.
Era di sinistra, Calasso, senza dubbio, membro di quella congrega gelosamente chiusa degli intellettuali di formazione marxista, da vicino o da lontano, che pretendevano di riassumere tutta la cultura di un Paese. Ma lui era diverso: pubblicava Mircea Eliade accanto a Cacciari, Simenon accanto a Sgalambro, Vassilij Grossman accanto a Sergio Quinzio. Dimostrava così un’apertura mentale e una volontà ferrea di non rinchiudersi in un ortus conclusus, senza cancelli. Non per niente la “sua” religione era l’induismo, credenza inclusiva per eccellenza, sincretica e vorace.
Certo, era un po’ sdegnoso verso chiunque non fosse un autore d’eccellenza, ma nessuno è perfetto. Sogno ancora, un giorno, di pubblicare un libro chez Adelphi. Per vedere l’effetto che fa.