Robert Capa, fotografo assurto a mito
«Il suo posto nella storia della fotografia potrebbe essere paragonato a quello di Robert Doisneau, ma il paragone si ferma qui: tanto Capa è un eterno migrante, dallo spirito avventuroso, quanto Doisneau è un sedentario che nutre la sua fotografia con i soggetti che sa scovare a Parigi e nelle sue periferie». Così scrive Gabriel Bauret nel catalogo della mostra dedicata a Robert Capa (1913, Budapest – Provincia di Thai Binh, 1954), pseudonimo di Endre Ernő Friedmann (nome che cambiò perché da lui stesso ritenuto troppo complesso per essere ricordato).
La sua fama è dovuta soprattutto per i suoi reportage di guerra: da quella civile spagnola, all’invasione giapponese in Cina; dalla seconda guerra mondiale ai reportage di viaggio in Unione Sovietica, a quello sulla nascita di Israele, fino all’ultimo incarico come fotografo di guerra in Indocina nel 1954. La carriera di Capa svolta decisamente in un giorno ben preciso: il 23 settembre 1936. È la data della pubblicazione sulla rivista francese Vu, della foto del miliziano colpito a morte. Quella foto diventerà uno degli scatti più famosi al mondo, anche se riguardo la sua autenticità se ne discute ancora oggi.
I 20 anni di attività del fotografo ungherese hanno coinciso con i momenti cruciali della storia del Novecento. Di lui così scrisse Henri Cartier-Bresson: «Per me, Capa indossava l’abito di luce di un grande torero, ma non uccideva; da bravo giocatore, combatteva generosamente per se stesso e per gli altri in un turbine. La sorte ha voluto che fosse colpito all’apice della sua gloria» (morirà per lo scoppio di una mina, nel 1954, in Indocina). L’azione – con tutta la sua dinamicità e forza propulsiva – spicca tra gli scatti come un fil rouge, che si dipana anche nei ritratti più celebri – tematica non in mostra – come quello di Picasso, fotografato nel suo studio di Parigi dove era rimasto anche durante l’occupazione, o di Trockij ardente oratore, o dell’amico Steinbeck con cui intraprese il viaggio oltre la cortina di ferro, nel ’47.
La mostra di Aosta (al Centro Saint-Bénin fino al 24 settembre) si concentra sulle immagini di guerra che hanno forgiato la leggenda di Capa, ma non solo. Nei reportages del fotografo, come in tutta la sua opera, esistono quelli che Raymond Depardon chiama “tempi deboli”, contrapposti ai tempi forti che caratterizzano le azioni. I tempi deboli ci riportano all’uomo, Endre Friedmann, alla sua sensibilità verso le vittime e i diseredati, al suo percorso personale dall’Ungheria in poi, instancabile e forse mai pienamente soddisfatto, che non esitava a rischiare la vita per i suoi reportages. Sono immagini che lasciano trapelare la complicità e l’empatia del fotografo rispetto ai soggetti ritratti, soldati ma anche civili, sui terreni di scontro, in cui ha maggiormente operato e si è distinto restando sempre fedele al suo celebre aforisma: «Se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino».
Oltre 300 sono le opere in mostra, selezionate dagli archivi dell’agenzia Magnum Photos, un corpus ancora più intrigante per la possibilità di ammirare l’utilizzo finale delle immagini di Capa, ovvero le pubblicazioni dei suoi reportages sulla stampa francese e americana dell’epoca e gli estratti di suoi testi sulla fotografia, che tra gli altri toccano argomenti come la sfocatura, la distanza, il mestiere, l’impegno politico, la guerra. Inoltre, saranno disponibili gli estratti di un film di Patrick Jeudy su Robert Capa in cui John G. Morris commenta con emozione documenti che mostrano Capa in azione sul campo e infine la registrazione sonora di un’intervista di Capa a Radio Canada.
“ROBERT CAPA. L’OPERA 1932 – 1954”, Aosta, Centro Saint-Bénin, fino al 23 settembre 2023.
__