Robert Altman: l’impegno e il disincanto
La scomparsa di Robert Altman, avvenuta il 20 novembre scorso in un ospedale di Los Angeles, segna la fine di un modo di fare cinema assolutamente unico e originale e chiude, per certi versi, un’epoca. Perché nessuno come lui è stato in grado di svelare, attraverso l’illusione del cinema, le illusioni di una società, quella americana, lungo oltre trent’anni della sua storia. Impegno e disincanto, accompagnati da un cinismo mai fine a sé stesso, hanno permesso ad Altman di togliere la maschera al sogno americano e di mostrarne il volto nascosto, privato, quello meno facile da accettare. A partire da Mash, che nel 1970 gli diede la notorietà internazionale e che divenne presto un film paradigmatico del pacifismo più militante e genuino, puntando lo sguardo, nel pieno della guerra del Vietnam, su un’altra guerra, quella di Corea, ormai relegata negli archivi della memoria. Perché di Altman colpisce soprattutto la visionarietà, la capacità di guardare altrove, dove non ti aspetti. Con i suoi film ha rivelato nuovi punti di vista e prospettive sempre diverse, travalicando e scompaginando i generi, dal noir de Il lungo addio (meravigliosa e disincantata rivisitazione del mito chandleriano di Philip Marlowe) alla fantascienza di Quintet (cupa e letteraria rappresentazione di un mondo di gelo e violenza insensata). Con le sue tantissime macchine da presa che disseminava ovunque sul set, il regista di Kansas City sembrava quasi cercare anche attraverso la tecnica di ripresa quell’angolo di visuale anomalo, intentato, in grado di darci quel qualcosa in più. Amava anche per questo i film corali, da costruire sulle relazioni tra i personaggi più che sull’intreccio della trama e con questo schema ci ha regalato perle del calibro di Nashville e America oggi. Un artista simile non poteva essere accettato dal sistema, e di fatto Hollywood lo ha sempre ignorato, limitandosi ad assegnargli proprio quest’anno, quasi fuori tempo massimo, un Oscar alla carriera che certamente non lo ripaga di oltre trent’anni di ostracismo. Con Robert Altman viene meno un altro baluardo contro l’omologazione dilagante del cinema di oggi.