Rivoluzione in fabbrica

Nessuno è rimasto indifferente alla luminosa e generosa presenza di Micaela Ottonello. «Il cristiano cerca di esserlo anche sul lavoro». Storia tratta dal numero di febbraio della rivista Città Nuova.
Micaela Ottonello ai tempi del suo lavoro nella fabbrica Caffè Alvarez, in Argentina.

È il 14 febbraio 1970, partiamo da Genova su una nave da carico: Micaela, Olga Lelia Suarez, Olga M. Kania, Edna e Teresita Poirer. Andiamo in Argentina, dove arriveremo l’8 marzo. Dopo un mese al Centro Mariapoli Jose C. Paz sono partita per Córdoba, dove avrei dovuto cercarmi un lavoro. Ho chiesto in ogni ambiente ma, non sapendo la lingua, non è stato facile. Finalmente, l’ho trovato alla reception del Padiglione Fiat dell’ospedale italiano. Un lavoro che mi piaceva un sacco perché si trattava di accogliere i malati e assegnare loro un letto. Non sapendo la lingua, ho combinato vari guai, cosa che ha spinto il direttore a licenziarmi, dicendomi: «Lei è molto brava… però impari lo spagnolo».

Dopo un mese, mi è stato offerto un lavoro come operaia in una fabbrica di caffè, tè, spezie, ecc. chiamata Caffè Alvarez. Mi hanno assunto immediatamente perché lì era proibito parlare e io non parlavo, cosa che mi ha costretta a mostrare con i fatti il mio modo di lavorare. Mi sono subito resa conto di cosa volesse dire lavorare come operaia in una fabbrica. Ho cominciato dal primo piano con le spezie e, quando chiedevo come fare qualcosa, la risposta che ottenevo era: «Arrangiati».

All’inizio ho assistito ad alcune risse, le donne si picchiavano, ed io senza pensarci due volte mi mettevo in mezzo e alla fine, per non picchiare me, smettevano anche loro. Un giorno sono andata in ufficio per ricevere il primo stipendio, e dopo che il capo del personale mi ha dato i soldi, mi sono girata e un ragazzo mi puntava con una pistola. Ho pensato che fosse uno scherzo e, credendo che si trattasse di uno dei ragazzi della fabbrica, ridendo, gli ho dato la busta con i soldi. «Si metta alla parete e non guardi», mi disse, e ho risposto: «Ma io te li do». Era un po’ nervoso. Quando mi sono girata, ho visto che erano in 5. Mi sono messa contro la parete e ho pregato l’Ave Maria ad alta voce. In tre minuti hanno portato via tutti i soldi tranne i miei, rimettendomeli in tasca. II giorno dopo è venuto il parroco e mi ha chiesto se anch’io avessi rubato i soldi, ma la mia responsabile rispose: «No, lei glieli ha offerti, ma loro non li hanno voluti».

Sono rimasta in questa sezione un anno e già l’ambiente era diverso: ci si aiutava, si lavorava bene e i colleghi non si picchiavano più. La responsabile se ne è accorta e, siccome c’era un problema serio al 2° piano, ha pensato di trasferirmi lì, questa volta come capo. Potete immaginare la situazione: c’erano persone che lavoravano lì da 18, 30, 50 anni… non mi potevano neanche vedere. Quando entravo, salutavo e nessuno mi rispondeva. Un giorno li ho radunati tutti e ho chiesto loro scusa, forse avevo fatto qualcosa che li aveva fatti restare male. Sembrava che fosse cambiato qualcosa, ma il giorno dopo tutto era uguale.

Tutto era nuovo per me, allora mi sono messa a lavorare a fianco di Maria Ester, che era la responsabile prima del mio arrivo, per avere un motivo per parlare, ma era come un muro. Lei era sveltissima e io dovevo seguire un ritmo ma non riuscivo. Ero così tesa che ad un certo punto mi è caduto il barattolo della colla, questo significava perdere del tempo per raccoglierla e pulire, e nessuno mi ha aiutata. Così ho ricominciato il mio lavoro e, dopo 5 minuti, mi è ricaduto il barattolo a terra. Mi sono detta: «L’importante è non perder la pace». A quel punto ho percepito come una iniziava a fare le scatole, l’altra a mettere il cellophane… Ho pensato: «Benedetta la colla che è caduta, perché comincia a mettersi in moto l’amore, tutto può cambiare».

II giorno dopo Maria Ester mi ha colpito con una domanda: «Ma tu perché sei venuta dall’Italia?». Ho risposto: «Sai, come tutti i giovani – avevo 29 anni – anch’io ho un ideale e sono venuta per questo ideale». «E qual è il tuo ideale, hai il fidanzato?». «Io te lo dico, ma non so se ti interessa: il mio ideale è Dio». «E tu per Dio hai lasciato la tua patria e la tua famiglia per venire a lavorare qui?». Le ho risposto: «Se si fa per un uomo, tanto più si può fare per Dio, non sarei venuta a prendere il tuo posto».

Il giorno dopo, mentre eravamo tutte insieme a prendere il caffè, hanno cominciato a sparlare, come al solito, inclusa Maria Ester, che si è fermata subito: «No, ho promesso a Micaela che voglio cambiare». E immediatamente: «Ma tu, Micaela, chi sei e cosa pensi di fare?». Erano tutte lì ad ascoltare quello che avevo da dire. È stato bellissimo e hanno subito cambiato atteggiamento.

La responsabile mi chiamò nel suo ufficio e mi disse: «Voglio sapere chi è lei, perché già al 1° piano, ed oggi al 2°, ho capito che c’è qualcosa». Al che ho risposto: «Io sono cristiana e il cristiano cerca di esserlo anche sul lavoro». E poiché dovevo chiedergli il permesso per andare qualche giorno in Mariapoli, ho aggiunto: «Io la invito con suo marito e i suoi figli a un incontro che si terrà il prossimo fine settimana». Lei mi rispose: «Con mio marito? Stiamo facendo le carte per separarci!». Le ho detto: «Suo marito lo invito io, lei pensi ad andarci con i suoi figli». E così è stato.

Ho invitato anche il padrone della fabbrica, uno spagnolo piuttosto duro che non salutava mai, si fermava solo a vedere come lavoravamo senza interessarsi se un operaio avesse da mangiare o meno. Appena glielo dissi, mi rispose: «La verità è che voglio andarci per curiosità, perché l’ho osservata da quando è entrata e quello che è successo al 1° e 2° piano è qualcosa che mi interessa. Poi, a lei avanza sempre tempo ed è amabile con tutti».

Così siamo andati tutti in Mariapoli. La responsabile si è riconciliata con il marito dopo 13 anni e ha fatto lì la sua prima Comunione. Il padrone, al suo ritorno, è andato a dare la mano ad ogni operaio. Il 2° piano era ormai sistemato, si lavorava bene ed era tutto armonioso. A questo punto la responsabile mi chiese di trasferirmi al 3° piano. Lì la realtà era diversa, tutti mi facevano dei sorrisi ma mi “pugnalavano” alle spalle.

C’era bisogno di nuovo personale per questa sezione e ho fatto entrare Marita, una ragazza che aveva il padre anziano a carico e tanto bisogno di lavorare. Era magrolina, piccola e apparentemente gracile di salute per lavorare come operaia. Il padrone mi disse: «Quella ragazza non serve, è troppo fragile, la mandi via subito». Ho insisto per tenerla in prova una settimana. Ha accettato, anche se dopo quel periodo ha continuato a ritenerla non idonea.

È stata durissima, non sapevo come dirglielo perché sapevo cosa significasse per lei perdere il lavoro. L’ho portata con me in focolare e lì abbiamo pianto assieme. Il giorno dopo ho detto a Gesù: «Poiché tu sei morto per me, io vado a morire per te». Mi costava arrivare e, per impiegare più tempo, ho fatto le scale. Mentre salivo, mi è venuta in mente la Parola di Vita di quel mese: «E quando sono debole Lui è più forte». A quel punto vedevo il lavoro con questa carica nuova: «Io sono debole, ma tu, Gesù, sei forte». E ho cominciato proprio da Marita spiegandole come chiudere le borse dello zucchero a velo. Era un lavoro difficile, ma lei lo faceva benissimo e con una velocità sorprendente. Arrivata la responsabile, figlia del padrone, ha notato anche lei come Marita lavorava bene. Prendendomi da parte mi disse: «Non abbiamo visto mai nessuno fare così bene questo lavoro». «Quella è la ragazza che suo padre ha licenziato, lavorerà fino a sabato e poi resterà senza lavoro». Mi rispose: «Non possiamo assolutamente perdere una ragazza così, parlerò io con mio padre».

E così, anche questa volta ha vinto la giustizia e, quando nel ’74 ho lasciato la fabbrica, lei ancora lavorava lì.

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