Ritratti di donne
G. Rossini, Semiramide. Roma, Teatro dell’Opera. Torna, nell’allestimento iperbarocco (che fa un po’ sepolcro dell’Escorial) di Pierluigi Pizzi l’opera che 125 anni fa inaugurava il Costanzi. Concertato e diretto con sottile acribia da Gianluigi Gelmetti, attento a dosare il non facile equilibrio tra fiati e archi di un lavoro orchestralmente astuto e a far cantare come usignoli acrobatici le voci a diletto del pubblico, il lungo lavoro del Pesarese si impone per saldezza architettonica, fantasia strumentale, bellezza melodica, in duetti e concertati di notevole ispirazione. È l’ultimo Rossini italiano, musicando da Voltaire una Semiramide, regina per nulla immacolata, in preda ai rimorsi, minacciata da una fatalità incombente. Tra visioni sovrannaturali, duetti amorosi, corali di popoli, la tragedia finisce con la morte redentrice della protagonista e l’eliminazione del cattivo Assur, assicurando la pace grazie ad Arsace, nuovo re babilonese. Un Verdi avrebbe sfoderato violenze sanguigne, Rossini invece dilata un mondo neobarocco dove i sentimenti ci sono ma vengono trasferiti nella bellezza pura, senza tempo: non fredda però, perché il calore è palpabile nel gioco orchestra-voci, nel turgore delle arie, nella voluttà del canto: una passionalità reale anche se non violenta ed i colori dell’orchestra sono vivi come un dipinto tizianesco. Sfruttando l’aria neobarocca, Pizzi inventa mitre vescovili, urne semoventi, un letto sfatto al centro del proscenio ove un’esagitata Semiramide (Darina Takova) deve vedersela con le acrobazie belcantistiche insieme ad una composta Daniela Barcellona (Arsace): le due regalano nei duetti momenti belli, meno nei pezzi d’assieme o nelle arie, forse per una certa stanchezza vocale. Potente l’Assur di Michele Pertusi, specie nella scena dell’apparizione, dove Rossini anticipa il Macbeth verdiano; efficace nella tessitura acuta Antonino Siragusa (Idreno). Corretto il coro e splendida l’orchestra in ogni sezione – specie i legni -, in un’opera dove la ricchezza musicale è così tanta e bella da far quasi soffrire. G.Bizet,Carmen. Roma,Accademia Nazionale Santa Cecilia. Chi non vede Georges Prêtre dirigere quest’opera si perde un evento. Dolcezza nel fraseggio, scioltezza ritmica, forza timbrica espresse da una gestualità unica, inconfondibile, quella dei maestri nella piena maturità, che sanno far rivivere un capolavoro arcinoto e sempre rielaborato (si pensi alla Karmen di Bregovic?). La zingara fatale e fatalista che seduce il candido don Josè fra corride, piazze, danze e notti misteriose in una Spagna ricreata dal genio bizetiano, affrontando la morte pur di restare libera, ha radici nel connubio amore-morte caro al romanticismo di sempre. Ma Bizet riveste la novella di Mérimée con una ventata fremente di accensioni selvagge, e di mistero: passione e liberazione dalla passione stessa, così che la musica è simbolo dell’attrazione fatale tra uomo e donna, del magnetismo della femminilità di cui l’uomo può diventare succube, per poi liberarsene violentemente. Prêtre esalta la mediterraneità della partitura – o meglio la sua straordinaria forza di vivere – con un’orchestra in stato di grazia (sentire i legni, l’oboe!, e i violoncelli) ed un cast di buon livello, fra cui emergono il lirismo di Norah Amsellem (Micaela), l’intensità della protagonista Julia Gertseva, e Marcus Haddock, un don Josè di rara delicatezza e forza, squisito tenore lirico. Con un coro di rara melodiosità (splendide le Voci bianche di Roma), l’evento è comunque stato Prêtre che ad 82 anni consegna ancora una volta una lettura rivelatrice di sfumature inedite, di colori, ma sempre con il chiaro scintillio di una mente illuminatrice. Entusiasmo alle stelle.