Ritorno a Paestum

Un pellegrinaggio della memoria: è questo il significato del mio ritorno nell’antica colonia greca
Paestum: una delle metope dell'Heraion alla foce del Sele.

Una ventina d’anni fa ci ero venuto con mia madre, adesso sono solo a ritrovare luoghi e atmosfere della greca Poseidonia, dominio poi dei lucani e infine colonia romana con l’attuale nome latino. Vorrei rintracciare il luogo dove le scattai una bella foto in cui mi sorride appoggiata ad un pozzo marmoreo, il bordo segnato dagli incavi delle corde per attingere l’acqua: quelle tracce del vissuto che tanto la commuovevano, nelle nostre visite a musei o siti archeologici. E vorrei rivedere – insieme ai tre mirabili templi dorici di duemilacinquecento anni fa – quel museo zeppo di tesori, dove si ammirano, fra l’altro, le strepitose lastre scolpite provenienti dal santuario di Hera Argiva, gli otto vasi bronzei del cosiddetto “sacello ipogeico” che, all’epoca della scoperta, contenevano miele ancora soffice, le tombe lucane con raffigurazioni di cacce, di corse con le bighe, di “ritorni” del guerriero, di ludi in onore del defunto. E a proposito di pitture funerarie, provo un certo formicolio all’idea di ritrovarmi davanti al famosissimo “Tuffatore”, che all’epoca della scoperta nel 1968 costituì un evento clamoroso per l’archeologia, trattandosi della prima tomba greca dipinta mai rinvenuta.

Per niente scoraggiato dal sole ardente, inizio la mia visita dal circuito esterno delle mura, come un qualsiasi antico abitante di Paestum che faccia ritorno nella sua città. Possenti e pressoché intatte, se non fosse per i blocchi di calcare caduti che giacciono ai loro piedi, contrassegnati ciascuno da un numero, aspettano una possibile ricostruzione? Siccome l’intera cinta misura quasi cinque chilometri, considerato il tempo a disposizione decido di percorrerne solo un quarto, ammirando la tecnica di costruzione “a secco”, i resti delle torri e le numerose postierle che forano lo spessore delle mura, utili anche per sortite in caso di assedio.

Oltrepassata porta Sirena, una delle quattro principali orientate secondo i quattro punti cardinali, eccomi all’interno del perimetro urbano. Tranne i templi, il foro con le terme e altri edifici civili e alcune insulae di abitazione, Paestum – una pianta regolarissima, definita da vie che si incrociavano ad angolo retto – è ancora tutta da scavare. Per questo, lungo il tracciato di quello che era il decumanus, mi occorrono una ventina di minuti prima di raggiungere l’area monumentale, al di là della statale 18 che taglia a metà l’antica città. A questa ferita, che mutila l’anfiteatro, si deve in realtà la riscoperta in epoca moderna di Paestum, di cui si erano perse le tracce (ne parlavano ancora soltanto eruditi, artisti e poeti che, riecheggiando Virgilio, Ovidio e Properzio, celebravano la fioritura due volte l’anno  delle rose pestane). Per secoli, infatti, ciò che di essa restava dopo il suo tramonto era stato protetto da fitte boscaglie e da paludi col loro corredo di malaria; finché l’apertura, nel 1752, di questa via di comunicazione verso il Sud, voluta da Carlo III di Borbone, rivelò al mondo Paestum e le sue meraviglie.

Il tempio di Cerere, quello di Nettuno, la Basilica… nomi di fantasia, attribuiti dagli eruditi del Settecento a questi edifici templari davanti ai quali si rimane soggiogati non so se più dalla maestà, dalla leggerezza, dall’eleganza o da tutte e tre le qualità messe insieme. Poco importa se ben diverso era il loro aspetto originario, quando stucco imitante marmo ricopriva il calcare delle membrature architettoniche e fulgidi colori esaltavano frontoni, capitelli, trabeazioni: ora il caldo poroso calcare messo a nudo trascolora nelle più preziose sfumature durante le varie ore del giorno, avvampando sotto il sole al tramonto; ora luce, vento e pioggia hanno libero accesso tra le colonne, negli ambulacri, là dove un tempo era la cella della divinità. Scomparsa ogni mistica ombra per l’assenza del tetto, il tutto è ridotto ad essenzialità, spiritualizzato. Prodigio operato dal tempo su una creazione del genio umano.

Nel museo ritrovo esposte lungo le pareti della sala centrale le 42 metope provenienti dalla foce del Sele, sede – a pochi chilometri da qui – del celeberrimo santuario di Hera Argiva. Rappresentano scene tratte da miti diversi: imprese di Eracle e degli eroi omerici, Oresteia, Centauromachia, ratto di Latona… il più grandioso e omogeneo complesso di sculture arcaiche della Magna Grecia (VI secolo a. C.), scoperto tra il 1934 e il 1940 grazie alla tenacia di due studiosi: Paola Zancani Montuoro e Umberto Zanotti Bianco. I quali, superando difficoltà d’ogni sorta, strapparono al fango delle paludi queste lastre in arenaria tenera come biscotto, alcune non finite, che ora ci stupiscono per l’originalità con cui l’artista ha saputo rinnovare miti più che noti e insieme per l’abilità di sintesi espressa nel poco spazio a disposizione. A malincuore mi stacco da quelle dove due leggiadre figure femminili in pepli pieghettati sembrano uscire dalla metopa a passo di danza (non occorre colonna sonora, la musicalità è già nelle linee morbide ed eleganti!), ma il “Tuffatore” mi attende.

Proviene da una tomba a cassa del V secolo a. C. Ciò che fa di questa un unicum è di essere dipinta in tutte e cinque le lastre che la componevano: le quattro interne con scene di convivio e, fatto ancor più eccezionale, quella di copertura con la rappresentazione di un giovane nudo che si tuffa in uno specchio d’acqua dall’alto di una specie di trampolino. Tutto farebbe pensare ad un atleta, ma a parte il fatto che nelle gare greche non era contemplato questo genere di sport, non esiste documentazione storica né archeologica relativa all’esistenza, nell’antichità, di trampolini come li intendiamo oggi. E allora? Considerato il contesto in cui è stata rinvenuta questa elegante figura vibrante di vita, sembra più accettabile intendere il tuffo non nel senso reale, ma come purificazione e come anelito all’immortalità.

Una volta uscito dal museo, aggiradomi tra i resti delle domus ellenistiche, scopro casualmente il pozzo della foto con mia madre. Per qualche minuto sosto qui in silenzio, le dita negli incavi della pietra, cercando di ritrovare la presenza di lei.

Paestum però non è solo classicità pagana. Chi vi entra da nord, attraverso porta Aurea, nella piazzetta accanto  al museo s’imbatte in una chiesa paleocristiana dove sono reimpiegati colonne e marmi provenienti dall’antica città: datata verso la metà del V secolo, documenta il primo insediamento cristiano nella zona, quando il paganesimo non doveva  essere ancora del tutto spento.

Qui, come del resto altrove, il culto cristiano si sovrappose a quello pagano adottando talvolta forme e riti esteriori della vecchia religione per facilitare il passaggio alla nuova. Una testimonianza di ciò è a Capaccio Vecchia, cittadina sita su uno sperone del Monte Sovrano ad alcuni chilometri da qui: là dove si rifugiarono  nell’XI secolo i pestani per sfuggire la malaria dell’ormai impaludata Paestum, sorge una chiesa del XII secolo dedicata alla Madonna del Granato. Ebbene, la tipologia esteriore della statua è identica a quella di Hera Argiva, la dea della fecondità il cui culto, dalla piana del Sele, si irradiò in tutto il territorio lucano: è infatti rappresentata seduta in trono, col Bambino in braccio e con nella mano destra la melagrana (il “Granato”), simbolo di fecondità. Non solo: nelle grandi solennità di maggio e metà agosto – mi dicono – vengono recate in processione a questa chiesa montana barchette colme di fiori e ceri. Ora sappiamo da antichi scrittori che ad Argo avvenivano in onore di Hera analoghe processioni con barchette votive. Sarebbe interessante una puntata a Capaccio. Ma questo sarebbe oggetto di un altro itinerario.

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