Risorse per il lavoro

Dal convegno Confindustria di Genova arriva un chiaro segnale al governo: le aziende non ce la fanno più. Come tutelare il bene sociale su cui è fondata la nostra Repubblica?
marcegaglia

Mentre i quotidiani sono occupati a dirci chi ha comperato un lascito ricevuto da un partito che non esiste più, da Genova la Confindustria invia un forte messaggio al governo: le aziende piccole e grandi che essa rappresenta hanno il fiato davvero corto, occorre aiutarle. È un messaggio importante di chi nel governo confidava, ma che adesso ribadisce che non ci si può più accontentare di attendere che "passi ‘a nuttata". Utilizzando, per evitare lo scontro sociale per la cassa integrazione allargata, i soldi che l’Europa aveva assegnato al nostro Paese per interventi strutturali, e soprattutto confidando che le famiglie anziane, protette da pensioni anticipate e da lavoretti in nero, avrebbero provveduto alle famiglie dei loro figli disoccupati.

 

L’onda lunga della crisi oggi colpisce non solo le piccole aziende in cui imprenditori e lavoratori già si arrabattano per sopravvivere, ma anche le grandi, come la Fiat e la Fincantieri che non si possono più sostenere con rottamazioni o commesse militari. Esse devono per forza confrontarsi col mercato internazionale, e questo richiede il contributo anche dei lavoratori più affezionati a privilegi ottenuti negli anni delle vacche grasse. Occorre rinunciare, come hanno fatto i loro colleghi tedeschi, a quelli che non incidono sugli stipendi ma riducono la produttività: le festività non godute ed i permessi retribuiti dei metalmeccanici sono notevolmente più alti di quelli di altri contratti.

 

Se le aperture reciproche tra Confindustria e Cgil al convegno di Genova dimostrano che le parti sociali si rendono conto che bisogna passare dalla guerra agli accordi, il governo non ha un ministro per le attività produttive, e quello del lavoro sa comunicare solo che estenderà ancora la cassa integrazione.

 

Tutti sappiamo che l’Italia non si può permettere di fare debiti, soprattutto in questi mesi in cui si rinnovano 160 miliardi di euro di titoli in scadenza, con la speculazione che aspetta passi falsi per scatenarsi: ma nuove risorse per il lavoro dei giovani vanno comunque reperite. Si possono trovare lottando contro la corruzione e l’evasione fiscale, che sperimentiamo ogniqualvolta abbiamo bisogno di prestazioni artigiane o professionali; ma si possono trovare anche nel settore finanziario, dove le banche, pur sapendo che saranno obbligate da Basilea 3 ad aumentare il capitale sociale per assicurare ai risparmiatori quella sicurezza che oggi è offerta al loro posto dai governi, si permettono di liquidare manager con 40 milioni di euro (che speriamo saranno adeguatamente tassati).

 

Il presidente francese ha riproposto con forza all’assemblea dell’Onu, per trovare risorse per lo sviluppo contro la povertà, la famosa Tobin Tax, la tassazione delle transazioni finanziarie internazionali; d’accordo con lui la Commissione europea, contrari gli Usa e la Gran Bretagna che da queste transazioni traggono grandi vantaggi; inspiegabilmente contrario anche il governo italiano, che si fa scudo del fatto che non tutti sono d’accordo, quando il resto dell’Europa vorrebbe applicarla almeno nel suo ambito.

 

Se il lavoro è il bene sociale su cui è fondata la nostra Repubblica, e se ormai la nostra economia si deve confrontare senza protezioni con quella del mondo intero, da un lato occorre ridurre le imposte sul lavoro e trasferirle sulle rendite finanziarie, e dall’altro che il lavoro renda di più, cioè che si tolgano tutti quegli ostacoli posti alla produzione che si potevano accettare solo quando il nostro lavoro era senza concorrenza, corretta o scorretta che sia. Oltre a trovare modo di combattere l’evasione fiscale, il nostro governo potrebbe intanto trovare risorse unificando il livello di tassazione di conti correnti bancari e prodotti finanziari, cosa che anni fa avrebbe dovuto già realizzare il governo Prodi.

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