Risorgimento a colori
A Roma la prima rassegna nell’anno dell’unità nazionale. Da Hayez a Fattori.
Non c’erano radio, televisione e Internet. Ma c’erano l’opera lirica, gli scrittori e, numerosi, i pittori. Così funzionava la comunicazione negli anni, prima e dopo il Risorgimento. Con sottintesi più o meno espliciti, fino al 1860, con la creazione del “mito” risorgimentale e dei “padri della patria” in seguito. Sono anni complessi. La pittura – come dimostra la rassegna romana, limitata giustamente a non troppe opere esposte – ha fatto, come le altre forme d’arte, la parte del leone.
In vista dell’unità
È Napoleone che, portando a suo modo gli ideali libertari della Rivoluzione francese, accende lo spirito dell’unità nazionale nelle menti più aperte degli intellettuali e della borghesia. Le figure della storia romana o greca – Bruto, o gli eroi omerici –diventano oggetto di un culto che si esprime nelle opere di un Appiani o di un Canova. Chi osservi la ritrattistica dell’epoca, ad esempio i ritratti di un Foscolo, di un giovane Manzoni, ne vedrà la suggestione nelle figure un poco idealizzate, i capelli al vento e la camicia spalancata sul petto, “pronti a morire” per la libertà.
Ma è la ventata del Romanticismo, arrivato tardi in Italia in confronto al resto d’Europa, a dare un’impronta decisiva all’anelito alla indipendenza nazionale, sulle orme di quanto accadeva in Grecia, in Polonia o nell’America latina. Si sfruttano i fatti medievali – “cantati” dalla musica impetuosa del giovane Verdi, cui rimandano – per lanciare un messaggio chiaro. Il veneziano Francesco Hayez, di stanza a Milano, ne è l’interprete artisticamente più valido. Il famoso Bacio (Milano, Brera) non è solo il momento romantico di una Giulietta e Romeo ottocentesca, ma rimanda alla necessità della “congiura e del nascondimento”, attuati dalle società segrete (carbonari e mazziniani) per realizzare l’indipendenza.
L’Addio del doge Foscari è l’esaltazione dell’amore paterno di fronte all’ingiustizia (leggi: la patria italiana di fronte all’Austria), che Hayez colora con tinte ricche di passione. Pathos, irruenza, accenti melodrammatici sono presenti infatti nella sua pittura e in quella di altri contemporanei, che ritraggono coppie fasciate dal tricolore o addirittura bambine vestite in divisa “italiana”.
Gli anni dell’unità
Quando Gerolamo Induno, nel 1860, dipinge L’imbarco di Garibaldi a Quarto, sono passati pochi mesi dalla felice riuscita della “Spedizione dei mille”; e già il generale, calmo sulla scialuppa al sorgere del sole, sta diventando l’eroe più popolare del Risorgimento. Giovanni Fattori lo rappresenta due anni dopo a Palermo, ritto sul cavallo, mentre intorno infuria la battaglia. Il rosso delle camicie, colore del sangue e del “martirio per la libertà”, protagonista della tela, offre un’idealizzazione dell’impresa in un’Italia che «si è fatta». Ma ora, come diceva D’Azeglio, bisognava «fare gli italiani» (impresa ancora in atto, a quanto sembra…). È ancora Fattori che inscena nell’Episodio della battaglia di san Martino (1868) la “sacra rappresentazione” laica di un fatto d’armi della seconda guerra d’indipendenza. Grandiosa, atmosferica, la tela è una “ripresa cinematografica” che si blocca su truppe ordinate e composte dentro uno spazio enorme, dove tutto spira la calma della vittoria.
Fattori non evidenzia il sangue ed il dolore, come fanno alcuni colleghi (si osservi la Trasteverina uccisa da una bomba, dell’Induno), ma solo la gloria. Silvestro Lega, poi – altro pittore “macchiaiolo” –, rappresenterà quella che è forse l’immagine più espressiva del Risorgimento “eroico” e tuttora la più conosciuta. Mi riferisco al Ritratto di Garibaldi, anno il 1861: il generale giganteggia sopra l’orizzonte, il volto raccolto tra le nubi del cielo, le mani appoggiate alla spada. Immagine della santità “laica” del nuovo Stato, di cui la gente lo sente come il vero fondatore. L’uomo libero dai servilismi che ha dato la sua vita per l’unità nazionale.
1861. I pittori del Risorgimento. Roma, Scuderie del Quirinale, fino al 16/1 (catalogo Skira).