Riscoprire Sironi
C’è stato per molto, troppo tempo una diffusa antipatia – talora un disprezzo – per l’arte del ventennio fascista. Personaggi come l’architetto Piacentini o il pittore Mario Sironi sono stati accusati di retorica, di grandiosità vacua, di celebrazione fascista o comunque “eroica”, oggi decisamene fuori moda. Pregiudizi ideologici? Certamente.
E’ dunque ora che ci si affacci a vedere la splendida rassegna al Vittoriano, a Roma fino all’8 febbraio, dedicata proprio a Sironi e alla sua opera. Ovviamente, non ci possono essere i grandiosi affreschi (uno per tutti, quello dell’Aula Magna alla Sapienza a Roma) eseguiti dall’artista, ma tele, disegni in grande numero, questo sì.
Personalità “monumentale” quella dell’uomo – scomparso nel 1961 – amico di Boccioni e di Piacentini, che attraverso tante sperimentazioni artistiche (futurismo, astrattismo in primis) e tecniche (impiega la tela, il mosaico, l’affresco, il disegno) arriva a esplicitare una sua poetica, una sua particolare visione del mondo.
E per lui, che percorre la storia italiana di tutto il primo ‘900, essa è una visione plastica, forte e costruttiva. Le figure sono bloccate in sculture monumentali, che diventano pensieri fusi in un masso, con colori terrosi, che rimandano sia alla fermezza “etrusca” come al plasticismo tardoantico. Ne emerge una umanità fiera, forte, inquietamente introversa, solitaria e immobile, come dominasse nel suo raccoglimento l’esistenza di tutto.
La mostra romana ne offre un vasto campionario. Dall’"Autoritratto" su cartone del 1910 – olio molto materico, occhio ribelle e cupo -, alla "Testa" –che ricorda Boccioni nella sua “scomposizione” in colori forti – del 1913; dalla Ballerina del ’16- tra futurismo e Chagall -, al celebre "Ciclista", immenso e cupo fra case a blocchi e un colore “giottesco”; dal "Paesaggio" del 1920, fumo e terra di una città desolatamente vuota alla magnifica cattedrale del ’21, forma geometrica che sfida il buio: ecco alcune tappe di un percorso che viaggia verso un’arte che interroga il contemporaneo e lo racchiude in solidità davvero alla Giotto.
Nei ritratti, Sironi propone una solidificazione della figura umana dentro colori terrosi in ambienti rievocativi dell’antico: la Venere del ’24, donna moderna compresa in una fissità tutta interiore, la bellissima "Solitudine" del ’25, dove una musa antica osserva col solo pensiero il mondo che scorre; Il pescivendolo del ’26, busto virile che diventa simbolo del lavoro con una maestà classica, la "Famiglia" del ’28, posta in un paesaggio affascinante e lunare di emozioni rapprese.
Sironi esalta l’umanità in cammino e i cicli di affreschi lo dimostrano. Col tempo la sua arte si fa compressa (Figura seduta del 1942), anche si incupisce (Montagne del 1943) e il colore si fa scuro (La siesta 1946), fino alla "Periferia" del 1950 in un azzurro bluastro di casermoni violenti.
Fa impressione la "Donna col velo" del ’53, una vestale di oggi dipinta a striature lunghissime e macchiate e desta stupore la Composizione sacra del ‘54 con la donna seduta accanto ad una porta – la tomba della resurrezione? – dove la tavolozza schiarita è simbolo che si va rarefacendo.
Le ultime cose di Sironi sono oli su cartone dell"’Apocalisse", del 1961: non è crollato un mondo all’artista che ha avuto tanta fiducia nell’uomo e nel suo progresso? Si lascia la rassegna con questo interrogativo che scuote senza apparente crudeltà. Da non perdere.
(catalogo Skira). Fino all’8/2
Mario dal bello