Il rischio incombente di escalation della guerra in Ucraina
Al G20 di Bali Putin ha deciso di non partecipare, inviando al suo posto il ministro degli Esteri Lavrov, ma di fatto trovandosi emarginato rispetto all’incontro tra il presidente statunitense Biden e il suo omologo cinese Xi Jinping.
Primo incontro di persona tra i due leader, questo summit bilaterale – nonostante le permanenti questioni in sospeso – ha comunque visto la concordanza sul non uso delle armi nucleari, con un evidente riferimento alle ripetute minacce russe.
Pechino, la cui posizione nei confronti di Mosca è assai diversa da quella occidentale, ha comunque inviato un chiaro segnale all’inquilino del Cremlino relativamente al conflitto in Ucraina.
Poi la stessa dichiarazione finale del G20, nel rilevare gli effetti negativi del conflitto sull’economia mondiale e nel riaffermare le posizioni nazionali sostenute in diverse sedi, «deplora con la massima fermezza l’aggressione da parte della Federazione Russa contro l’Ucraina e ne chiede il completo e incondizionato ritiro dal territorio dell’Ucraina».
Infatti, il documento prosegue mettendo in evidenza che «la maggior parte dei membri ha condannato fermamente la guerra in Ucraina e ha sottolineato che sta causando immense sofferenze umane e aggravando l’esistente fragilità dell’economia globale: limitando la crescita, aumentando l’inflazione, interrompendo il sistema delle forniture, aumentando l’insicurezza energetica e alimentare e aumentando i rischi per la stabilità finanziaria». Considerando che, oltre alla Cina, tra gli altri erano presenti Paesi come India, Brasile e Indonesia, il segnale al Cremlino appare chiaro. Ciò non toglie che Putin, evidentemente seppur meno sostenuto da Xi Jinping rispetto all’inizio della guerra, sia in grado di mantenere ancora la pressione militare sul Paese est-europeo, come dimostrano i ripetuti attacchi missilistici sulle varie città.
Le difficoltà che in questa fase sta incontrando l’esercito russo sul terreno al punto da dover ripiegare diverse volte, l’ultima da Kherson, fanno sì che venga adottata una nuova tattica, appunto quella di colpire da lontano attraverso l’uso di droni e di missili, cercando – nei limiti del possibile – di ridurre il contatto con le truppe avversarie.
I mezzi antiaerei forniti dai Paesi occidentali a Kiev stanno rendendo sì difficoltoso l’uso dell’aviazione da parte russa, ma le armi suddette (droni e missili) permettono al Cremlino comunque di esercitare una significativa pressione sia sulle forze armate sia sulla popolazione ucraine.
C’è però sempre un rischio in questa guerra, quello che un colpo sbagliato possa andare a finire altrove rispetto all’obiettivo individuato. Basta pensare ai rischi che sta correndo la centrale nucleare di Zaporižžja, ad esempio, mentre non si può parlare di errore o di malfunzionamento nel sistematico bombardamento di edifici civili come sta avvenendo da mesi (peraltro come è già stato praticato a Guernica nel 1937, metodo ripreso ampiamente nella seconda guerra mondiale e proseguito in molte delle attuali guerre dimenticate).
Stando alle notizie attuali, la caduta del missile (al momento ancora non identificato, forse ucraino) in Polonia, con le relative vittime, sta a confermare tali rischi, che, nel caso fosse stato russo, avrebbe potuto portare ad un’escalation del conflitto attivando la solidarietà della NATO e la famosa clausola di difesa collettiva in base all’art. 5 che afferma che «un attacco contro un alleato è considerato un attacco contro tutti gli alleati».
Inoltre, se non bastasse, l’articolo 42.7 del trattato di Lisbona, in vigore dal 2009, dichiara che «se un Paese dell’Ue è vittima di un’aggressione armata sul suo territorio, gli altri Paesi dell’Ue hanno l’obbligo di aiutarlo e assisterlo con tutti i mezzi in loro potere».
In realtà, queste due clausole non comportano un immediato automatismo per cui, se uno stato venisse attaccato, tutti gli altri entrerebbero nel conflitto al suo fianco, dato che comunque rimarrebbe sempre in mano ai singoli governi la possibilità di scegliere come e quando intervenire.
Anzi, occorre rilevare che più volte la NATO ha chiaramente affermato di non voler intervenire militarmente nel conflitto russo-ucraino, pur fornendo ampio sostegno a Kiev. Questo ha permesso di circoscrivere – almeno finora – il conflitto che avrebbe potuto allargarsi e coinvolgere altri Paesi in modi incontrollabili.
Ciò non toglie che l’intera vicenda rasenti sempre una possibile escalation, viste da parte occidentale non solo le abbondanti forniture di armamenti e l’ampio sostegno tecnologico, ma anche la partecipazione di combattenti stranieri in quantità non trascurabili: secondo il sito analisidifesa.it, esisterebbe addirittura una brigata polacca forte di 2.000 uomini ben addestrati, più alcune altre migliaia provenienti da ben 60 Paesi.
Queste truppe, con una composizione assai variegata secondo il sito suddetto, vengono armate anche con quelle armi occidentali, alcune delle quali particolarmente avanzate come, ad esempio, i missili anticarro Javelin del valore singolo di oltre 90mila euro. Il timore diffuso riguarda anche la distribuzione di queste armi che potrebbero finire anche nelle mani di gruppi terroristici o della delinquenza organizzata, come ha dichiarato ripetutamente l’Europol nei mesi corsi.
Quindi, oltre all’impegno per cercare di attivare un processo di de-escalation verso delle trattative e una pace giusta, nell’ambito di una sicurezza collettiva, ci si dovrà porre il problema non solo della ricostruzione del Paese martoriato e di un sistema di relazioni internazionali adeguato alla vera minaccia del cambiamento climatico, ma anche di monitorare e controllare gli arsenali del conflitto.
Non possiamo dimenticare infatti le dispersioni di armi avvenute in Siria e in Libia, per fare due esempi, che sono entrate in circuiti clandestini riapparendo a centinaia di km di distanza, in mano a formazioni irregolari o terroristiche ad alimentare nuove tensioni e violenze.