Rischi esistenziali per l’Europa

L’unisca speranza dell’Isis, contrariamente a quanto si crede, consiste nell’espandere le frontiere del caos, nell’estendere la trincea nei gangli delle nostre democrazie. In questa prima parte della riflessione di Pasquale Ferrara, leggiamo i primi tre livelli su cui è necessario agire per non cedere alla logica del terrorismo. La seconda parte dell'approfondimento sarà pubblicata domani
Due soldati belgi

Nel momento in cui una nuova tragedia, provocata dalla furia del terrorismo cieco ed implacabile, colpisce la “capitale dell’Europa”, è oggettivamente difficile mantenere la lucidità necessaria per capirne la portata e per comprendere che agire, più che reagire, è la risposta davvero strategica che dobbiamo avere la capacità di articolare. Anzitutto, dobbiamo renderci conto che colpire Bruxelles ha un chiaro intento politico, rivolto non tanto e non solo al Belgio, quanto  all’Unione Europea in quanto tale, come istituzione integrativa di 28 paesi europei. E’ un’intimidazione intesa a ripercuotersi, perciò, in tutti gli Stati membri, e che persegue lo scopo di portare la guerra dell’ISIS nel cuore dell’Europa, con l’obiettivo di allargare il fronte dei paesi coinvolti. L’unisca speranza dell’ISIS, contrariamente a quanto si crede, consiste proprio nell’espandere le frontiere del caos, nell’estendere la sua trincea nei gangli delle nostre democrazie. 

Sono molteplici i livelli sui cui è necessario “agire”.

 

In primo luogo, come sempre dinanzi a shock violentissimi la prima tentazione è quella di prevedere misure straordinarie, stati di eccezione, sospensione di regole e di procedure democratiche. Ma se c’è un paradigma che distingue le democrazie rispetto all’oscurantismo del terrore è proprio quella di combattere volutamente  “con una mano legata dietro la schiena”, e cioè quella di non farsi trascinare nel baratro della rinuncia alla libertà in cambio di una (illusoria) sicurezza. L’obiettivo del terrorismo è, tra l’altro, proprio quello di dimostrare che lo stato  democratico è inefficace, è incapace di proteggere i propri cittadini e pertanto è delegittimato, perché inetto. Insomma, la democrazia non servirebbe in situazioni di crisi. Il punto è che questa distorta rappresentazione della democrazia è fatta propria non solo da populisti e demagoghi, ma anche da analisti e intellettuali più o meno autorevoli.

 

Sarebbe però un cedimento gravissimo, lo stesso che ha portato gli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, ad adottare il “Patriot  Act”, cioè una legislazione draconiana che ha avuto non solo l’effetto di restringere le libertà fondamentali anzitutto degli Americani, ma anche di fornire una sorta di lasciapassare per la violazione “legalizzata” dei diritti umani. Se oggi un candidato alla Presidenza degli Stati Uniti può pensare di chiudere le frontiere a tutti i messicani e a tutti gli “Islamici”, se può affermare che la tortura è una pratica ammissibile, si deve proprio a questa infezione della democrazia, a questo inquinamento dell’opinione pubblica, che costituisce, in qualche modo, una vittoria del terrorismo.

 

Tutto ciò è inutile oltre che dannoso, giacché le democrazie hanno tutti gli strumenti per difendersi: misure di polizia, possibilità di controlli a vari livelli, mezzi giuridici, mezzi politici, mezzi informativi e comunicativi. Basta usarli bene e con tutte le loro potenzialità, senza che ci sia bisogno di giustificare l’accantonamento della legalità con la situazione di emergenza. Gli attentati di Bruxelles, ad esempio, non sono dovuti alla mancanza di strumenti, ma al fatto che essi non sono stati utilizzati in modo coordinato e pro-attivo.

 

Il secondo rischio è quello di credere che il pericolo per la nostra sicurezza venga dall’esterno. La minaccia, a Bruxelles come a Parigi, è più endogena che esogena, e bisognerà pure interrogarsi sul perché i kamikaze crescono nelle città europee, dotati di cittadinanza e di passaporti europei. Il tema delle periferie ghettizzate o delle enclave metropolitane è stato trascurato per troppo tempo; ciò non riguarda solo gli aspetti, pur fondamentali, della sicurezza, ma anche e soprattutto i fenomeni di alienazione e di “tradimento” della patria di residenza, che sanciscono il fallimento culturale e civile delle politiche di integrazione. Certo, la radicalizzazione è spesso il risultato di deleterie influenze esterne, e il caso macroscopico è quello dei foreign fighters europei di ritorno, addestrati nel sedicente stato pseudo-islamico, ma ciò non toglie che il contesto urbano degradato e la marginalità giochino un ruolo tutt’altro che secondario, se non altro perché non producono i necessari anticorpi contro la deriva dell’estremismo violento.

 

Il terzo rischio, collegato al punto precedente, è che la paura finisca per ampliare il “fronte del rifiuto” rispetto alla questione dei rifugiati e dei migranti, accomunando indistintamente migrazioni e terrorismo, e cioè confondendo gli effetti con le cause, dimenticando che i rifugiati sono essi stessi vittime di terrorismo, persecuzioni, guerra. I segnali che vediamo sono preoccupanti, con l’aggravante di una strumentalizzazione politica vergognosa e disumana, che gioca con le giuste preoccupazioni dei cittadini per ottenere consensi e conquistare scranni elettorali.

 

Fermo restando che un politico avrebbe il dovere di guidare, di spiegare, di argomentare, più che di inseguire l’opinione prevalente, cercando anzi di cambiarla in nome della verità (almeno quella con la lettera minuscola), verrebbe da dire che in queste condizioni sarebbe di gran lunga più dignitoso per un politico perdere le elezioni piuttosto che guadagnare fette di potere con un metodo strutturalmente disonesto e manipolativo, oltre che irresponsabile e, alla lunga, auto-distruttivo, per sé stesso, per la società, per la politica e la sua credibilità.

 

(Gli altri tre punti dell'approfondimento saranno pubblicati domani, sabato 26 marzo 2016)

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