Ripensando a Gae Aulenti. L’architetto delle virtù civili
Dicono gli amici che da ragazza Gae Aulenti arrivasse al Politecnico di Milano, dove studiava architettura, in lambretta. Eravamo alla fine degli anni Quaranta ed era certamente un’immagine insolita la presenza di un ragazza in un’università tanto austera e maschile. Non posso che pensare a lei in questi giorni, recandomi in quella stessa università che ho frequentato prima come studente e poi come docente. Oggi il piazzale davanti all’università è affollato di ragazzi e di ragazze, chissà quanti di loro conoscono questa architetta nota e riconosciuta in tutto il mondo, forse più che nel suo stesso Paese?
Gae Aulenti si è spenta in questi giorni a 85 anni, dopo una malattia che l’ha consumata in fretta. La sua vita è già un pezzo della storia dell’architettura moderna. Si è laureata in architettura nel 1953 e ha mosso i primi passi nella professione accanto ad Ernesto Nathan Rogers, maestro rigoroso e illuminato. Ha collaborato con Adriano Olivetti e con grandi committenti della Milano del boom economico. Firmato progetti nelle più grandi città del mondo: basti pensare alla trasformazione della Gare d’Orsay nel Musée d’Orsay Parigi, realizzata nel 1980 o al Museo d’arte catalana a Barcellona, alla ristrutturazione di Palazzo Grassi a Venezia, lo Spazio Oberdan a Milano, il Castello Estense a Ferrara, l’Asian Art Museum di San Francisco, solo per ricordare i più famosi.
Sempre schiva, defilata, mai ossessionata dal presenziare nei dibattiti e nelle arene culturali, impeccabile in quella sua eleganza discreta, negli ultimi anni l’architetto di fama internazionale Gae Aulenti era tornata a prendere ogni tanto la parola. Forse per la malattia che da qualche tempo la stava provando, forse una rinnovata responsabilità verso un mondo che le appariva sempre più lontano da quello che la sua generazione aveva sognato, sulle rovine della guerra.
Era intelligente, di un’intelligenza acuta e rigorosa. Amava la politica e l’impegno civile, di cui anche l’architettura le sembrava potesse essere strumento efficace. Era una donna libera, davvero inconsueta per il nostro Paese, libera dai provincialismi, donna di cultura internazionale sapeva sentirsi a casa in ogni parte del mondo, era ironica, «aveva un tratto che andava oltre lo schieramento politico – dice oggi di lei l’architetto Renzo Piano – era, appunto, civismo. Una virtù poco praticata. Forza ed eleganza insieme. Una vera leonessa».
L’ultima uscita pubblica di Gae Aulenti è stata il 16 ottobre scorso alla Triennale di Milano per ricevere insieme a Vittorio Gregotti, la medaglia d’oro alla carriera. Era ormai un’ombra sottile, ma ha regalato ai presenti un sorriso di gioia.
Una stagione si è compiuta. La generazione di architetti che ha ricostruito il mondo dopo le guerre e ha creduto che il rigore, la tecnica e l’arte potessero contribuire a cambiare il mondo, si sta lentamente spegnendo. La più grande lezione per l’architettura che possiamo raccogliere da questi maestri non è tanto legata alle forme, alla consegna di un codice linguistico ed espressivo, ma ad un messaggio etico: l’architettura deve tornare ad assolvere un ruolo civile, rispondendo in modo vigile e partecipe alle sorti delle comunità umane e dei luoghi in cui abitano.