Ripartire dal lavoro. Il dono di Giovanni Bianchi
Questo dialogo con Giovanni Bianchi sulla questione del lavoro è un pezzo del 2010, al tempo del referendum di Pomigliano che poneva i lavoratori della Fiat davanti alla scelta di aderire o meno alle proposte di riorganizzazione dell’azienda. Un punto nodale che ha segnato la storia delle relazioni industriali in Italia con la successiva inimmaginabile uscita da Confindustria del conglomerato della famiglia Agnelli, la conflittualità tra le sigle sindacali dei lavoratori metalmeccanici, l’adozione del Jobs Act, la crisi della reale rappresentanza del lavoro. Questo dialogo con Bianchi nasceva a partire dall’intervista a don Peppino Gambardella sulla rottura del legame sociale oltre la fabbrica (“Per chi suona la campana?”). Può perciò essere vincolata, per alcuni dettagli, al momento storico non poi così lontano nel tempo, ma contiene una traccia feconda di riflessione da seguire.
Giovanni Bianchi, che ha terminato i suoi giorni terreni nel luglio 2017, era nato nel 1939 a Sesto San Giovanni. Un cattolico cresciuto in quella realtà operaia chiamata, un tempo, la Stalingrado d’Italia. Diceva di sé che aveva imparato la democrazia in parrocchia , alle elezioni del circolo giovanile dell’Oratorio San Luigi. Presidente delle Acli a livello nazionale, più volte deputato e presidente del Partito Popolare Italiano. È stato autore di una vasta produzione di saggistica da cui emerge una ricerca continua del senso del lavoro e della scelta cristiana. Negli anni ’60 dirige i Quaderni del “Centro Operaio” che ha fondato assieme a due sindacalisti della Cisl, Bruno Manghi e Sandro Antoniazzi, fino ad arrivare, nelle pagine dell’originale rivista Bailamme, a un dialogo profondo con la corrente del pensiero operaista di Mario Tronti. Un percorso che ha affrontato il tema sulla trascendenza e dell’alterità a partire dalle intuizioni del domenicano francese padre Marie Dominique Chenu sul lavoro come luogo teologico e dalla vita di tanti lavoratori che, da cristiani, hanno vissuto le vicende economiche e sociali contemporanee senza fughe dalla realtà.
Come, ad esempio, si può leggere dal diario della aclista Palma Plini, operaia alla Borletti di Milano. La Simone Weil italiana.
Da questa prospettiva avevamo rivolto a Giovanni Bianchi alcune domande a partire dalla vicenda di Pomigliano che ha rimesso al centro dell’attenzione la vita e il destino di tanti lavoratori alle prese come sempre con decisioni imposte dalle regole dettate dalla finanza.
A suo giudizio, cosa si decide a Pomigliano?
Pomigliano dice molte più cose rispetto alla sua condizione e all’ordine del giorno. Pomigliano è profondo Sud. È l’ultimo bastione di un fordismo pregresso e che pure vuole tenere il passo della globalizzazione. Una Bastiglia meridionale, con un indotto di oltre 15 mila addetti e relative famiglie. E soprattutto tiene insieme e mette in contraddizione due cose del postmoderno quotidiano: il nuovo che sorge (magari altrove, nel Continente Asiatico o in quella che fu l’Europa dell’Est, oltre la Cortina di ferro) e il vecchio che cambia.
Tutti spiazzati. Il sindacato, non a caso spaccato (inutile demonizzare la Fiom). Marchionne: il nostro manager migliore, rientrato dal Canada per dissuadere gli Agnelli a occuparsi soltanto della cassaforte di famiglia. Uno che non odia gli operai. Aveva detto infatti non più tardi del 12 giugno 2006 all’Unione Industriali di Torino che era assurda la pretesa dei mercati finanziari assetati dello spargimento di sangue nell’azienda, dal momento che era a tutti evidente che «il costo del lavoro rappresenta il 7, 8%, e dunque è inutile picchiare su chi sta alla linea di montaggio pensando di risolvere i problemi». Da dove allora l’ultima pulsione a moltiplicare i turni e il diktat: prendere o lasciare?
La politica, assente. Il governo, al balcone, come al solito. I leader del Pd, al quale appartengo, hanno preso posizione con alcune dichiarazioni, ovviamente in contrasto tra loro. La questione non è questa dialettica, assolutamente legittima. Ma la circostanza che tutto pare essersi limitato e chiuso con le dichiarazioni. È una condizione di conflitto politico normale quella di confrontarsi e litigare in pubblico sui temi di fondo. Significa avere intuito quanto morda e continuerà a mordere la crisi. Come i problemi che pone non possano cioè essere smontati con una sola chiave inglese. Come sia urgente andare – fisicamente – a Pomigliano e da lì incominciare una discussione nazionale sugli strumenti di cui equipaggiarsi, visto che ne siamo desolatamente privi. La responsabilità non è il ritardo: le cose (e soprattutto gli uomini) ci precedono e ci spiazzano, e talvolta compare perfino l’ipotesi non prevista perché imprevedibile: il “cigno nero” di Taleb. La responsabilità è non fare di Pomigliano un punto di riflessione cruciale. Così la politica diventa residuale. Meglio la Chiesa. Quella locale, ovviamente, che suona le campane e frequenta le tende della resistenza dignitosa. È quella che ci tiene fieramente legati al cattolicesimo italiano nonostante Propaganda Fide. Ma, abitando a Sesto San Giovanni – ex città del lavoro ed ex Stalingrado d’Italia, e qualche decennio fa un vertice del triangolo industriale del Nord con 40 mila tute blu –, non posso tacere la speranza ma anche il disincanto di vedere in piazza i preti di una Chiesa che fa finalmente pace con la modernità quando questa entra in agonia. Dunque? Pomigliano è un punto drammatico di partenza. Fingere di non vederlo o ignorarne la portata è cattivo servizio alla politica e a tutto il Paese.
Come si può mettere al centro la persona davanti a scelte economiche che sono definite ineluttabili?
Da che mondo è mondo una politica che non faccia orrore a se stessa è chiamata a governare le vite e lo stare insieme delle persone, non a proteggere gli interessi di pochissimi privilegiati. Che le vigenti condizioni economiche non siano un fatto naturale è dimostrato palesemente dalla svolta a gomito compiuta negli Stati Uniti d’America dopo il “settembre nero” di Wall Street. In una notte la culla del liberismo ha rovesciato visione e parametri, quasi copiando quell’IRI italiano, inventato da Beneduce e Mussolini, che negli anni ’30 si chiamava “convalescenziario”. Niente di ineluttabile dunque, soprattutto quando gli esperti fanno parte del ceto dirigente del mondo che lucra su disoccupazione e disastri, e le stesse agenzie di rating sono state colte con le mani nel sacco avendo interessatamente certificato il falso.
Ho letto i due acuti interventi di Mario Tronti, l’estremo depositario dell’operaismo italiano, e Marco Revelli. Incomincio da Revelli. Una pertinente apologia della dignità, anche controcorrente, degli operai di Pomigliano. La fabbrica, che incredibilmente si intitola a Giambattista Vico, lo stimola a questa citazione che testimonia l’apprezzamento del grande pensatore napoletano per “l’origine della nobiltà vera, che naturalmente nasce dall’esercizio dalle morali virtù; e l’origine del vero eroismo, ch’è domar superbi e soccorrere a’ pericolanti”… Vien voglia di mettere un rinforzo spulciando dal De hominis dignitate di Pico della Mirandola, ma un dubbio si presenta: in assenza di una adeguata strategia, non si corre il rischio di scrivere splendidi epitaffi? La dignità e la densità di senso del gesto degli operai di Pomigliano esigono di essere valutate per un nuovo inizio.
Per le ragioni sommariamente richiamate non mi pare azzeccato il rapporto con la marcia torinese dei “40 mila” del 1980. Là si chiudeva una fase. I soggetti avrebbero lasciato il passo nel riflusso al peso e alla violenza dei processi reali. Qui invece si schiude un panorama totalmente inedito: c’è l’abisso, ma anche la vastità degli orizzonti da esplorare.
Non c’è davvero nessuna alternativa?
A portata di mano è difficile coglierne una. Ma più alternative – mi pare – possono essere costruite sul piano della politica. Il sindacato è indispensabile ma non basta. A Pomigliano si è diviso all’interno. Non basta la Fiom. E non basta il risultato nell’urna del referendum a ribaltare l’allarme della vicenda. Non è stato quantomeno reso pubblico alcun duraturo e sistematico contatto con il sindacato polacco di Tichy. A questo punto Pomigliano batte Tichy uno a zero. Ma… Ma ricordate un anno fa i cartelli dei lavoratori inglesi contro i lavoratori italiani di Sicilia con le scritte: “English job for english workers “? Quanto può durare e come può finire questa versione della guerra tra poveri che si gioca in una Europa diventata marginale? In un mercato come quello dell’auto caratterizzato da endemica sovrapproduzione? I diritti al ribasso non hanno come termine di confronto le condizioni d’esistenza dei lavoratori cinesi?
Il capitale finanziario esibisce la sua faccia globalizzata vincente sospinto da quella “grettezza” che il presidente Obama ha stigmatizzato nel discorso di insediamento alla Casa Bianca. Chi può imporre regole semplicemente più umane ai signori del mercato se non una diversa autorità politica, con una diversa credibilità, con un disegno diverso (non solo la benedetta green economy), diversi rapporti di forza? Fa impressione il divorzio tra lavoro e diritti prodottosi a Pomigliano dal momento che il fordismo e il patto tra democrazia e mercato avevano fin qui visto – non solo in Italia e non solo sulla nostra Carta Costituzionale – il lavoro come vettore di diritti. Il lavoro come grande ordinatore della società, primo fattore di inclusione per gli immigrati dal Mezzogiorno a Torino e in tutto il Nord dell’Italia negli anni ’60 e ’70, e gli immigrati dal Sud del mondo che nei nostri giorni sono sospinti nelle nostre città dalla globalizzazione.
Neppure costituisce più una differenza incolmabile il dilagare dell’economia criminale in vaste regioni del Sud del Paese, dove l’usura e la camorra la fanno da padrone. I quotidiani milanesi hanno infatti titolato in questa settimana: “Un Nord mai visto”. Soltanto le intercettazioni infatti – in presenza della totale omertà degli imprenditori vittime – e la caparbietà di una protagonista delle cronache giudiziarie italiane come il pubblico ministero Ilda Boccassini hanno avuto ragione di un insediamento della ‘ndrangheta, provvisto di una fortezza con ristorante e piscina chiamata “La Masseria” a Cisliano, in quello che continuiamo a chiamare hinterland milanese. In quella villa, il cui accesso era custodito dai più sofisticati apparati elettronici, un tribunale mafioso, presieduto dal boss, minacciava e prendeva a calci e pugni chi non era puntuale nel versare le quote dell’usura, davanti ad altri debitori atterriti. Anche questa è la Milano del XXI secolo, mischiata a quella africana o filippina o cinese, la città dove la mafia è stata abolita in ogni discorso politico.
Ha scritto Luciano Gallino: «È possibile che la Fiat non abbia davvero alcuna alternativa». E allora? Vede altrettanto bene Mario Tronti: «Il problema non è il Cavaliere, il problema è il cavallo, e cioè questo modo d’essere che occupa le nostre vite e che osa sempre di più per avere un comando assoluto». Solo che il cavallo non è il ronzino italiano nella scuderia di Arcore. È un cavallo globale. La risposta adeguata, quella che tiene conto del fatto che il lavoro è per l’uomo, e non viceversa, è scritta soltanto nella dottrina sociale della Chiesa. Decisamente troppo poco. Tantomeno serve riaprire l’ennesima querelle tra cattolici e laici, tra cosiddetti credenti e cosiddetti noncredenti. La via della soluzione non è stata ancora trovata. Non è una sconfitta o un disastro perché Pomigliano è un punto di non ritorno, per tutti. La storia e il futuro di un nuovo sviluppo passano di lì. Purché si trovino il coraggio e la saggezza di ripartire, insieme, proprio da Pomigliano. Se il caso, come ha saputo fare la grande politica, andando contro la storia.