Ripartire dai negoziati
Il riconoscimento Onu della Palestina non aprirebbe vie realistiche alla pace: l'opinione di Lisa Palmieri, rappresentante dell'American Jewish Committee in Italia
Loro, in quanto ebrei ed americani, gli eventi di questi giorni li stanno vedendo da vicino: l’American Jewish Committee, nato nel 1906 negli Stati Uniti, ha infatti la sua sede centrale a New York. Il comitato ha assunto una posizione ben precisa sulla questione tramite un articolo in cui il suo direttore esecutivo, David Harris, spiega perché un sì dell’Onu non favorirebbe il processo di pace, con particolare riferimento alla posizione dell’Unione Europea. Ci illustra più in dettaglio le ragioni di questa posizione Lisa Palmieri, rappresentante dell’AJC per l’Italia e la Santa Sede.
L’American Jewish Committee, in un articolo del suo direttore esecutivo, ha preso una posizione molto forte contro il riconoscimento dello Stato Palestinese. Quali sono le ragioni di questa posizione, e quali invece le vie da seguire?
«Il problema principale è che di questo Stato farebbe parte anche Hamas, con il quale non c’è alcun tipo di accordo: non solo non riconosce nemmeno i confini del 1967, ma neppure il diritto all’esistenza di Israele. L’embargo sulla Striscia di Gaza è accaduto proprio perché non ha voluto rispettare gli accordi raggiunti in passato, né cessare le violenze. Abu Mazen, purtroppo, non può garantire anche per Hamas. Riconoscere lo Stato Palestinese adesso sarebbe inutile e dannoso, perché asseconderebbe speranze di pace non realistiche: sarebbe unilaterale, saltando la necessaria fase di negoziati e accordi come previsto da Oslo. Israele e non è contrario alla creazione e al riconoscimento di uno Stato palestinese accanto ad esso, e noi tutti vogliamo la pace: ma sono necessari compromessi da entrambe le parti».
Una delle questioni sul tavolo è anche la possibilità che la Palestina, se riconosciuta come Stato, deferisca Israele alla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità…
«In tal caso, anche Hamas potrebbe essere deferito per lo stesso motivo. Se consideriamo che dal 2006 l’80 per cento delle condanne emesse dal Consiglio per i diritti umani dell’Onu e più del 90 per cento delle "sessioni speciali" sulle violazioni di questi diritti chiamano in causa Israele, è evidente che questo non rispecchia la realtà del mondo: basti pensare alle condizioni e al destino dei pripgionieri politici in Paesi come Cina, Iran, Russia, Siria, Eritrea, Egitto, Turchia o Gaza stessa, per non parlare delle azioni terroristiche di Hamas e Hezbollah. Ci sono molti arabi che vivono in Israele e sono felici di rimanerci accettando la loro doppia identità di palestinesi e cittadini israeliani, per quanto come minoranza – e come per tutte le minoranze – ci siano ancora alcune questioni irrisolte. Gli ebrei, al contrario, non sarebbero accettati in un ipotetico Stato palestinese, che diverrebbe di conseguenza "Judenrein", libero da ebrei».
Alla luce dei cambiamenti avvenuti con la primavera araba, quale può essere il ruolo di Israele e degli ebrei?
«Gli ebrei hanno una storia millenaria in tutto il Medio Oriente, ma sono stati cacciati, perseguitati e resi profughi dai Paesi arabi dopo la creazione di Israele nel 1948. Se ci fosse la pace e la primavera araba portasse veramente alla formazione di governi democratici, gli ebrei di origine araba in Israele e nel resto del mondo potrebbero giocare un ruolo molto costruttivo, funzionando da ponte verso Israele e magari, in parte, tornando a far parte attiva della vita sociale e politica nella terra dei loro avi».
Lei è rappresentante dell’AJC in uno degli Stati dell’Unione Europea: quale ruolo per questa istituzione?
«L’Ue potrebbe essere più forte come mediatore, facendo parte del quartetto. Non dovrebbe appoggiare il riconoscimento della Palestina senza ulteriori negoziati, e potrebbe fare da cornice per questi negoziati in futuro».