Ripartire come prima?

Transizione ecologica, lotta alle diseguaglianze, innovazione tecnologica. Il campo aperto delle proposte per uscire da una crisi epocale. Idee per un cambiamento radicale.
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La pandemia da Covid-19, che determina la nostra vita personale e sociale, non è un fulmine a ciel sereno che ci ha colpito per disgrazia. Almeno quelli che chiamiamo i “decisori politici” mondiali avevano accesso agli allarmi degli esperti che invitavano a prendere le misure per evitare quello che è poi accaduto e può ripersi in tanti altri modi.

È la conseguenza di una crisi mondiale, come dimostrano la debolezza dell’Onu e le polemiche sulla gestione dell’Organizzazione mondiale della sanità. Per questo motivo non si può parlare semplicemente di “ripartenza”. Occorre un cambio radicale di mentalità e di cultura. Lo aveva intuito, in altro contesto storico, Sergio Paronetto, animatore di quelle “idee ricostruttive” per l’Italia avanzate da un gruppo di cattolici (il “codice di Camaldoli”) nella previsione del crollo del regime fascista.

Paronetto, scomparso prematuramente nel 1945, poneva in evidenza la necessità di un forte e preventivo “esame di coscienza” sulle collusioni con un sistema iniquo e violento, invitando a costruire una democrazia non solo formale ma “economica”, orientata, cioè, alla reale partecipazione e alla giustizia sociale.

Qualcosa non è andato bene, se oggi, come afferma l’economista Stefano Zamagni (dossier Governance di Città Nuova), «l’aumento endemico delle disuguaglianze sociali» costituisce «uno dei nodi più inquietanti e difficili da sciogliere». Non sono concetti astratti, ma la realtà brutale dei fatti. Con la diffusione del virus, Jeff Bezos, il padrone di Amazon, ha visto crescere in pochi mesi il suo patrimonio del 55%, raggiungendo i 200 miliardi di dollari di patrimonio personale, mentre, ad esempio, a Teramo ai dipendenti di un’azienda che produce reti metalliche (la Betafence) è stato annunciato il licenziamento per volontà della proprietà londinese, controllata dal fondo speculativo Carlyle, già intenzionato, prima del coronavirus, a spostare la fabbrica altrove. Questo ci fa capire che non si può certo vivere di sussidi, ma ritardare il più possibile il licenziamento serve a prendere tempo e a cercare nuove soluzioni per non lasciare nessuno da solo. E sono centinaia le crisi industriali aperte pre-pandemia.

In autunno si teme una “bomba sociale”. Come ha messo in evidenza una ricerca promossa da Censis e Confcoopertive, la pandemia rischia di mettere sul lastrico «un esercito di 3,3 milioni di lavoratori irregolari e 2,9 milioni di working poor» (con salari insufficienti ad uscire dalla povertà). Nonostante l’eroismo delle singole piccole realtà, solidali nell’incertezza, senza efficaci politiche industriali le persone non avranno i soldi per tornare a spendere, non solo per mangiare e curarsi, ma per tutto il resto.

Ciò che accade non è un destino irreversibile. Per cambiare direzione il Nobel per l’economia Joseph Stiglitz invita ad abbandonare le false credenze sull’efficienza e l’autoregolamentazione dei mercati. Lo studioso statunitense se la prende in particolare con l’Europa, dove i governi e gli esperti si sono finora sperticati in «lodi verso un’industria finanziaria sempre più spericolata, lasciandole totale libertà di azione», producendo gravi danni all’ambiente, l’aumento della disuguaglianza e della povertà. La rinuncia ad effettuare investimenti produttivi, da parte degli Stati, in obbedienza al Patto di stabilità, ha avuto effetti recessivi. Stiglitz definisce “disumane” le politiche di austerità imposte finora dai governi europei.

L’irrompere tragico della pandemia, dopo iniziali resistenze, ha provocato la sospensione, non l’abbandono, di tali regole e permesso addirittura la possibilità di un piano di investimenti (il Recovery plan) finanziati da un debito condiviso tra i Paesi Ue e da alcune entrate fiscali comuni. Per alcuni si tratta di una svolta storica, paragonabile a quanto avvenuto nella fondazione degli Stati Uniti d’America quando le ex colonie, federate tra loro, decisero, accettando la proposta del primo segretario del Tesoro Alexander Hamilton (1757-1804), di mettere in comune i debiti contratti nella guerra d’indipendenza dall’impero britannico. Altri osservatori sono molto più scettici e temono trappole nascoste dietro le formule pompose. Molto dipenderà da come verranno utilizzate le risorse che il nostro Paese è chiamato ad impiegare da 2021 al 2024 rispettandone la finalità, prevista nel Next generation Ue, di innovazione verso la transizione ecologica e la digitalizzazione.

Tutti parlano di riforme strutturali necessarie per uscire dalla crisi ma le ricette sono diverse e opposte tra di loro. Il governo ha nominato numerose commissioni di esperti e promosso la consultazione degli “Stati generali dell’economia”, ma è decisiva la linea adottata dal piano di ripresa e resilienza all’esame dell’Europa. Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha chiesto, ad esempio, di seguire il modello degli altri Paesi europei che sostengono la siderurgia, il settore dell’auto e la filiera dell’esportazione. Per avere un’idea, Macron ha investito 8 miliardi di euro per fare della Francia la punta avanzata delle auto elettriche, prevedendo l’aumento della produzione nazionale. Ma l’Eliseo è presente nel capitale di Psa (Peugeot, Citroen, Opel, ecc.) che, tra l’altro, completerà la fusione con Fca, ex Fiat, con effetti prevedibili sull’occupazione. Dove si taglierà la produzione?

L’ultimo rapporto McKinsey prevede il taglio di 60 milioni posti di lavoro in Europa per effetto della crisi da coronavirus. Solo lo Stato, secondo l’economista francese Gael Giraud, può «creare nuovi posti di lavoro capaci di assorbire» una tale massa in uscita, ma il soggetto pubblico deve essere messo in grado di individuare i settori industriali in grado di uscire fuori dal tunnel. Una prospettiva errata, secondo Carlo Stagnaro, studioso dell’Istituto Bruno Leoni, da noi intervistato, promotore del pensiero liberal liberista in Italia, contrario a «uno Stato imprenditore, né tanto meno uno Stato-ufficio di collocamento»: il suo compito sarebbe quello di «sostenere i lavoratori che perdono la loro occupazione e aiutarli ad acquisire adeguate qualifiche professionali per ricollocarsi». Una prospettiva opposta a quella di Mariana Mazzucato, docente all’University College London e consigliera del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, secondo la quale proprio grazie agli investimenti statali “pazienti”, strategici e di lungo termine», è possibile far avanzare tecnologia, innovazione e posti di lavoro.

Si tratta di comprendere cosa avverrà nel nostro Paese in questi mesi cruciali, dal 15 ottobre 2020 ad aprile 2021, in cui l’Italia è chiamata a presentare il programma completo per il Recovery and Resilience Plan. Un momento straordinario, aperto ai più grandi cambiamenti e rivolgimenti, che impone un dialogo serio tra le parti sociali e dove nessuno può considerarsi spettatore passivo.

Interviste

Una visione di futuro

Enrico Giovannini, professore di statistica economica all’Università di Roma Tor Vergata, già presidente dell’Istat, ministro del Lavoro e direttore dell’Ocse. Promotore dell’Alleanza per lo sviluppo sostenibile che raduna la gran parte (270) delle realtà associative italiane, comprese Confindustria e le grandi sigle sindacali

Cosa dice questa crisi?
Il capitalismo degli ultimi 40 anni, che pure ha prodotto risultati straordinari, non è in grado, per sua natura e impostazione culturale, di affrontare i problemi del XXI secolo, che sono quelli della non sostenibilità ambientale ma anche economica e sociale (diseguaglianze) di un modello che presuppone una crescita quantitativa continua e senza fine.
La transizione ecologica viene percepita ormai come inevitabile perché, come ha detto il papa, «non si può pretendere di vivere sani in un mondo malato».
Ci sono esempi da riprendere dagli altri Paesi?
La tedesca Agenzia pubblica dell’innovazione radicale, l’Agentur für Sprunginnovationen, creata per sostenere e collegare gli innovatori con le imprese medio-piccole che non hanno i capitali necessari per finanziare i costi di ricerca e sviluppo. Una “mano pubblica” che innesca un processo virtuoso per far uscire il nostro sistema produttivo dal circolo vizioso fatto di piccole imprese, poca innovazione, bassa produttività e bassi salari.
Che ruolo possono avere le aziende pubbliche?
L’Enel, ad esempio, è ormai uno dei soggetti più interessanti a livello mondiale nel campo delle energie rinnovabili e della mobilità sostenibile. Una direzione impressa dall’ad Francesco Starace, ma non da un chiaro indirizzo pubblico. Nella nomina dei vertici delle imprese pubbliche, il governo deve dare il mandato a realizzare innovazione e sostenibilità e non solo ad assicurare un ritorno finanziario per l’azionista statale.
Cosa manca in Italia?
Un istituto di studi sul Futuro, come esiste da tempo in altri Paesi, Francia, Singapore e altri. Capire i settori in crescita e quelli in declino permette di orientare gli investimenti e accompagnare la transizione. Con l’ASviS abbiamo creato Futuranetwork.eu, un sito che raccoglie studi e documentazioni sui temi rilevanti per il nostro futuro. Ricordiamoci che una pandemia era prevista da tanti scienziati. Se si troverà il vaccino, il virus potrà essere debellato, ma, come ha ricordato Ursula von der Leyen, per il cambiamento climatico, che tutti ormai conosciamo nei suoi effetti devastanti, non esiste alcun vaccino possibile.
La transizione ecologica – insieme alla digitalizzazione – è diventata una condizione necessaria per i progetti a valere sulle ingenti risorse del Recovery and Resilience Plan. Per fare un esempio, la riconversione ecologica dell’ex-Ilva di Taranto sarebbe un progetto che rientra tra quelli finanziabili, al contrario della apertura di una nuova acciaieria che non sia allineata alle migliori pratiche ambientali.

Un cantiere immenso

Giovanni Dosi, professore ordinario di Economia e direttore dell’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Co-direttore delle task force “Politica industriale” presso l’Initiative for Policy Dialogue, promossa nella Columbia University dal Nobel per l’economia Joseph Stiglitz.
Quali direzioni strategiche considera auspicabili per il nostro Paese?
Bisogna saper distinguere le politiche industriali dal sistema di trasferimenti monetari alle imprese che, a mio parere, sono dispendiosi e di scarsa utilità, tranne in casi di progettualità definite come nel caso di Industria 4.0. Il Recovery fund definisce un approccio in cui prima vengono definiti gli obiettivi e poi stanziate le risorse necessarie per realizzarli.
Quali interventi pubblici considera importanti adottando questo metodo?
Ad esempio, investire in sanità ripristinando un efficiente sistema di medicina di base, ma anche nella ricerca tecnologica nel settore dei vaccini in generale, negli antibiotici di nuova generazione, in grado di vincere la resistenza dei batteri, e nelle terapie immunologiche per i tumori. Teniamo presente che in questo caso esiste un predominio della Novartis che copre il 70% di tali terapie così costose da mettere in bancarotta il nostro sistema sanitario nazionale che deve acquistarle per mantenere livelli di accessi pubblici alle cure. Per alcune terapie si paga a tale azienda privata 200 mila euro a persona. Costo che può abbattersi aggirando le enormi rendite percepite dalle multinazionali in questo settore. Esempi virtuosi, in questo senso, si sono avuti all’ospedale Bambino Gesù di Roma.
E nel campo della transizione ecologica?
Abbiamo una parte considerevole del nostro territorio da recuperare e bonificare. Un lavoro, che possiamo definire “ripuliamo l’Italia”, di dimensioni tali da rimandare al ruolo svolto, negli Usa, dalla società pubblica della Tennessee Valley Authority, costituita nel 1933 dal presidente Roosevelt, per il recupero e la valorizzazione di un vasto territorio colpito dalla crisi del 1929. Nell’Italia di oggi non c’è che l’imbarazzo della scelta. Dagli interventi nella Terra dei fuochi alle falde inquinate dal Pfas, dall’uranio impoverito all’amianto disperso in tante costruzioni, ecc. C’è, infine, la grande partita dell’idrogeno “verde” (prodotto da fonti rinnovabili, ndr). Una vera e propria rivoluzione da mettere in atto.
Nella task force promossa dal ministero dell’Innovazione avete proposto la riduzione dell’orario di lavoro a salario invariato. Perché?
È una soluzione già avanzata da Keynes quasi cento anni fa e che si pone nel senso di lavorare meno ma tutti, condividendo i benefici dell’innovazione tecnologica. Andando avanti nella direzione attuale, avremo, altrimenti, una minoranza di lavoratori superpagati, o almeno in maniera decente, e una massa di impoveriti senza diritti.

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