Riparliamo del riso

La raffinazione che si fa oggi sul riso, altro non è che un’operazione meccanica di abrasione fatta per rimuovere gli strati (aleuronici) esterni della cariosside (chicco) che, pur provocando la sottrazione di una buona dose di proteine e di grassi che si trovano concentrati sulla superficie del granello, rende il riso raffinato adatto ad essere utilizzato in migliaia di ricette e, soprattutto, in grado di resistere senza deteriorarsi a medio-lunghe conservazioni. È verissimo che l’aver introdotto la raffinazione industriale del riso (fatta dagli inglesi), che consentiva di poter conservarlo intatto anche per lunghi periodi, ha provocato l’insorgere del beri-beri, malattia che ha mietuto molte vite in India, ma va anche detto che ciò è successo perché le popolazioni indigene che fino ad allora si nutrivano esclusivamente di riso semigreggio, nel passare al consumo di riso raffinato si sono trovate improvvisamente, senza saperlo, private di quell’apporto indispensabile di proteine che il riso, come mono-alimento, garantiva loro. Il riso “semigreggio” (comunemente chiamato integrale) ha unapercentuale di proteine che si aggirano tra il 12 ed il 14 per cento. Durante la raffinazione meccanica queste percentuali si riducono di oltre la metà, ma per popolazioni (come la nostra), dove la dieta giornaliera è ricca di pesce, di carne e di frutta che spesso accompagnano il riso nel piatto, questo minor apporto di proteine del riso non è assolutamente un problema. Il problema vero sta invece nella conservazione del riso semigreggio (integrale) perché i due enzimi (lipasi e lipossigenasi), che si trovano negli strati aleuronici esterni della cariosside, trasformano i grassi in acidi, col risultato che, dopo 30 giorni dalla sbramatura (operazione di separazione della “lolla” che avvolge il chicco dal semigreggio), il valore dell’acidità, da un valore iniziale di 10 (di una scala chimica), sale a 100. Per capire meglio il fenomeno si pensi a quello che avviene per l’uva dove gli enzimi (saccaromiceti cerevisae) trasformano gli zuccheri dell’uva in alcol etilico. Nel riso, come già detto prima, i grassi attraverso un analogo meccanismo vengono trasformati in acidi. Da ciò consegue che l’utizzo di riso semigreggio è consigliabile solo se lo si acquista in confezione sottovuoto che inibisce la reazione enzimatica, e, una volta aperta la confezione, se lo si cucina in tempi brevi. Oggi il riso bianco, contrariamente a quanto asserito nell’articolo in questione, non viene assolutamente “lucidato” (processo che si definisce “brillatura”) con talco e glucosio da nessuna riseria in Italia, come invece avveniva sino a 50 anni fa per far sì che resistesse all’attacco di parassiti (la falsa tignola da molti chiamata “farfallina”). L’unico trattamento che il riso oggidì può subire dopo la raffinazione – ma ciò è sporadico e limitato a poche riserie – è quello dell’oleatura con oli di semi, per evitare che si “sfarini” durante la sua conservazione. Di regola si aggiungono 400/500 cc di olio a 100 chilogrammi di riso. Una primaria riseria procede addirittura a recuperare dalle parti grasse che vengono asportate dal riso mediante raffinazione l’olio, proprio l’olio di riso (che si trova oggi anche in commercio), per riaggiungerlo al riso prima del confezionamento in modo da ridare al riso ciò che gli è stato tolto. Il trattamento idrotermico (di parboilizzazione), con il quale si ottenere riso parboiled (dal caratteristico colore giallo oro), consente di commercializzare un riso con più alte percentuali di proteine (rispetto a quello bianco) e con una maggiore resistenza allo spappolamento (maggior tempo prima di passare di cottura) caratteristiche queste che lo rendono adatto ad essere cucinato nelle mense o in grandi ristoranti, ma poco adatto ad usi domestici (se non per alcune specifiche ricette), dove l’intervallo tra la sua cottura e il suo consumo è estremamente ridotto. Caratteristica per taluni negativa è la consistenza gommosa, che permane anche dopo lunga cottura e la scarsa attitudine ad assorbire condimenti e a mantecarsi.

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