Rinascita sull’Acropoli

Ad Atene la rivelazione della bellezza induce sempre alla speranza. Anche in tempo di crisi.
Acropoli

Sconcerto, delusione, rabbia. Sono i sentimenti provati dai molti turisti che, durante le feste dell’Epifania, in una Atene dalle sobrie decorazioni natalizie hanno trovato chiusa l’Acropoli insieme alle altre aree archeologiche e ai musei statali, per sciopero del personale. Cose che capitano in questo tempo di grave crisi del Paese, fra le lamentele di negozianti e venditori di souvenir, ai quali questa scelta è apparsa incomprensibile e controproducente. Tra i delusi ci siamo anche noi, per la prima volta in visita all’antica città-Stato dell’Attica. Fortuna che almeno il nuovo museo dell’Acropoli è aperto.
Ci dirigiamo decisamente verso il modernissimo edificio ideato dall’architetto svizzero Bernard Tschumi, lanciando occhiate speranzose alla rocca famosa per i suoi templi, al momento inaccessibili. Il museo – in marmo, cemento, acciaio, ma soprattutto vetro – si erge maestoso e al tempo stesso leggero (dal secondo piano, passeggiando su pavimenti trasparenti, è possibile spingere lo sguardo fin nel sottostante quartiere di età ellenistica e imperiale rinvenuto durante la costruzione). È di puro servizio ai reperti, senza ingombranti e cervellotiche soluzioni. Domina ovunque la luce.

Nella sala delle korai e dei kouroi (le statue votive di ragazze e ragazzi), due sorridenti ragazze cinesi a braccetto, due korai del terzo millennio, si muovono agili tra le loro compagne di 2500 anni or sono, con nel marmo ancora tracce dei colori che dovevano esaltarne le linee eleganti.

E poi la galleria dedicata al Partenone: aperta alla visione dell’Acropoli, è continuo in essa il dialogo tra metope, fregi, frontoni e, in lontananza, il tempio dedicato alla vergine dea protettrice di Atene, da cui provengono. Anzi, perché collocate più a portata di sguardi, il visitatore può apprezzare meglio degli stessi antichi ateniesi queste sculture fatte per essere guardate più che altro dagli dei. Tra pezzi originali e calchi (il più si trova al British Museum di Londra) si è fatto l’impossibile per restituire l’integrità di un complesso scultoreo unico al mondo e purtroppo reso mutilo, più che dal tempo, dalla mano dell’uomo.
 
Marmo pentelico
 
Se non fosse per i rintocchi di campane e le salmodie diffuse da altoparlanti, segnalanti la presenza di chiese ortodosse dove si sta svolgendo la “divina liturgia”, rischieremmo di non notarle, a tal punto alcune rimangono soffocate tra i palazzi moderni: una di esse, poco più che una cappella, è addirittura inglobata in un tipico esempio della speculazione edilizia che ha deturpato la dignità e la grazia dell’Atene ottocentesca, dove accanto a quartieri in stile orientale, eredi della dominazione ottomana, predominava un gradevole stile neoclassico. Alcune di queste chiese sono veri gioielli. Nessuna però supera per fascino la Mikrì Mitròpoli (la “piccola cattedrale”, risalente al XII secolo, dedicata alla Madonna e a sant’Elefthérios), tutta in marmo pentelico, con l’esterno abbellito da fregi e bassorilievi di epoca classica che presentano scene pagane non di rado modificate per adeguarle alla nuova fede cristiana.
Pochi i giovani presenti alle funzioni religiose. Affollano invece le zone più centrali, come l’animatissima piazza di Monastiràki, l’antico quartiere turco coi suoi bazar, il suo “mercato delle pulci” e le sue moschee, come pure l’adiacente quartiere pedonale di Plaka. Per questi giovani, con un Paese sull’orlo del fallimento, il futuro è gravido di incognite. Atene non offre possibilità, e numerosi sono quelli che, potendo contare su appezzamenti ereditati, lasciano la città per impiegarsi nel settore agricolo, con i relativi sacrifici (si calcola che tra il 2008 e il 2010 l’agricoltura abbia offerto circa 32 mila nuovi posti di lavoro); altri ancora cercano invece uno sbocco nel settore marittimo. La terra e il mare, le risorse di sempre di questa nazione.
 
Il Partenone rinascente
 
Atene affascina sempre, col sole o con la pioggia. O con i suoi notturni in cui l’Acropoli e gli altri monumenti spiccano superbamente illuminati. L’Acropoli poi occhieggia un po’ dovunque andiamo, ci perseguita quasi nei nostri itinerari. Si direbbe che voglia essere un po’ corteggiata, prima di rivelarsi, come speriamo. Lo sciopero infatti dovrebbe concludersi l’ultimo giorno della nostra permanenza. Intanto facciamo scorta di tutto ciò che è accessibile o si può adocchiare al di là delle recinzioni: dai musei di arte cicladica, bizantina e islamica alla Biblioteca di Adriano, dall’Agorà con il Theséion al foro romano con la Torre dei Venti, al tempio di Zeus Olimpio, al Keramikòs: il quartiere dei vasai con l’adiacente necropoli, luogo dei più struggenti addii scolpiti nelle stele di candido marmo.

Gli addii arrivano anche per noi. Prima però di riprendere l’aereo, facciamo una fulminea puntata sull’Acropoli, finalmente aperta. Ai cancelli fin dalle prime luci dell’alba, incalzati dal tempo, ci arrampichiamo sulla rocca, felici per l’aria tersa, il cielo azzurro e senza nuvole, il fulgore dei marmi sotto il sole. Valicato l’ingresso dei Propilei con l’aereo tempietto di Atena Nike, ammiriamo l’Eretteo con la loggetta delle Cariatidi. Giunti di faccia al Partenone, contempliamo in silenzio, girandoci attorno, la maestosa creazione di Callinico e Ictino, in corso di restauro ormai da anni. Dove la mole non è nascosta dalle impalcature, gli inserti candidi sul marmo dorato stanno a indicare le parti sostituite o integrate. Gru di varie dimensioni si drizzano per sollevare i pesanti blocchi. Dall’interno, interdetto ai visitatori, proviene un ritmico rumore di scalpellini. La copia di un gruppo scultoreo giace a terra in attesa di essere collocato sul timpano.

Conoscendo tutte le traversie sofferte da questo capolavoro, sembra un miracolo ciò che ancora resta, e davanti a tanta bellezza sfigurata mi viene da immaginarlo come fosse in fase di costruzione. In fondo lo spettacolo, all’epoca di Fidia, doveva essere simile: le impalcature, il timpano incompiuto, le maestranze all’opera con i loro scalpelli, le sculture da posizionare e ancora prive degli accesi colori che dovevano evidenziarle a distanza… È come se il Partenone stesse nascendo or ora. Con questo augurio di rinascita ci accingiamo a salutare la Grecia.

Oreste Paliotti

 
 
Una montagna sacra
 
L’Acropoli, un luogo di un’armonia raggiunta. Davanti al Partendone di Fidia.
 
Galleggia nel plenilunio notturno. Rosseggia all’aurora. Si fa morbido quando piove. Sempre, è una presenza. Maestosa ma leggera. È il Partenone. Atene si adagia su per colli e montagne in una sterminata periferia. La città sacra, l’Acropoli, con il monumento, svetta su di essa come qualcosa che protegge e custodisce la città asmatica.
Si sale per una strada ripida, per giungere all’altura calcarea della “montagna sacra”. Non è casuale questa definizione: passando infatti tra le rovine del teatro di Dioniso e quello di Erode Attico, accanto agli scarsi resti di quell’Areopago dove Paolo lanciò il messaggio cristiano alla cultura ellenistica, si avverte che ci si sta avvicinando a qualcosa di sacro. Misterioso, inafferrabile, eppure vicino. I monumenti di questa gigantesca “città alta” si rivelano poco a poco finché ci si aprono i Propilei di un candore abbagliante: questi marmi perseguitati dal tempo e dagli uomini si alzano nelle colonne, negli architravi ad introdurre alla maestosa visione del Partenone.

Ci sono certo dei luoghi in Europa dove il sacro è tangibile e si rivela attraverso la grandezza delle forme, scultoree, pittoriche e architettoniche: le cattedrali di Chartres e Reims, la città di Toledo, la Piazza dei Miracoli a Pisa, San Pietro in Vaticano, la Valle dei templi ad Agrigento o le rovine di Selinunte… Qui tuttavia esso acquista la forza di una “elevazione dell’anima” immediata e spontanea, da dar l’impressione di toccare il divino da subito.
 Il grande tempio dorico dalle colonne scanalate come una partitura musicale, benché lacerato dagli insulti dei secoli e dalle ruberie degli uomini (le sculture acquistate da lord Elgin e finite al British Museum di Londra), è una presenza parlante e viva. Domina l’area con i resti monumentali, ma non incombe. Spazia sull’altura da cui si vedono il mare e i monti lontani e al di sotto la vita cittadina, il cui rumore tuttavia qui non arriva. Dal quinto secolo prima di Cristo esso resiste, con le metope ormai sfigurate dallo smog e le rare sculture rimaste sotto il frontone a testimoniare la potenza di un’arte che non è solo – come spesso si crede – olimpica serenità, ma vita. Infatti, quando si scende al moderno e stupendo Museo dell’Acropoli e si viene a contatto diretto con i marmi, ci si conferma che la classicità non è solo idealizzazione dell’uomo, ma forza e vita, in movimento o stasi, eppure sempre ripiena di “grazia”.

Questa realtà nell’Acropoli si concretizza in forme architettoniche ora lievi – come la loggetta delle Cariatidi – ora grandiose, come appunto il tempio dedicato alla vergine (parthène, in greco) Atena, il Partenone appunto. Il mondo greco qui sentiva la presenza tangibile del divino.
Che in esso acquistava il senso della luce. L’arte greca è infatti sostanziata di luminosità. Come nelle sculture dei kouroi e delle korai, così nelle costruzioni è la luce ad esaltare la levigata brillantezza del marmo, a incunearsi fra le trabeazioni e dare anima alla materia. Una luce molto pura, che rende l’Acropoli una presenza, come si diceva, maestosa e lieve. E il Partenone qualcosa di molto diverso dalle costruzioni occidentali – romane rinascimentali barocche o moderne –, perché di esse è la madre originaria, di una armonia irripetibile e raramente raggiunta.
Così che di fronte alla selva di colonne, ai frontoni lacerati e agli spazi dove passa un’aria serena, oltrepassando le gru per i restauri che quasi “offendono”, non si possono che fare pensieri di bellezza e di pace. Ogni impurità dell’anima qui si fa impossibile.

Mario Dal Bello

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