Rileggere l’Olocausto al tempo di Trump

A Battery Park a New York migliaia di persone hanno marciato contro l’ordine del presidente di bandire gli stranieri e i musulmani, mentre a pochi metri, nel Museo ebraico, si ricordava lo scrittore Elie Weisel e la sua esperienza ad Auschwitz, dove «le persone diventarono numeri e fumo»
AP Photo/Craig Ruttle

Il museo del patrimonio ebraico a Manhattan ha voluto trasformare la Giornata della memoria in ricordo delle vittime dell’Olocausto, in una settimana di incontri con la storia, l’arte e con i pochi sopravvissuti.

Ieri, domenica, l’intero pomeriggio è stato dedicato alla lettura comunitaria di La notte, il capolavoro di Elie Weisel, lo scrittore e giornalista, Nobel della letteratura, morto lo scorso luglio e che in quel libro condensò la memoria e l’orrore di Auschwitz.

Avevo prenotato questo appuntamento da settimane, preparandomi ad incontrare questo “Primo Levi”, a conoscerne figlia ed amici. E invece questo momento culturale ha avuto ben altri risvolti.

A pochi metri dal Museo, a Battery Park, di fronte all’accesso dei battelli per raggiungere la Statua della liberta, migliaia di newyorchesi si sono dati appuntamento, assieme al loro sindaco, per protestare contro l’ordine esecutivo con cui il presidente Trump vuole impedire l’ingresso negli Usa ai cittadini di Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan e Yemen per tre mesi, mentre per i siriani la proibizione è a tempo indeterminato.

La motivazione, Trump l’aveva già annunciata in campagna elettorale quando aveva promesso di difendere gli Usa dal terrorismo e di proteggerne severamente i confini, resi un colabrodo dai suoi predecessori.

Nella lista non compaiono né l’Arabia Saudita, nazione d’origine degli autori principali dell’attentato alle Torri Gemelle, né Emirati Arabi Uniti, Pakistan e Turchia, governi che godono della fiducia presidenziale, nonostante le molte zone d’ombra nei rapporti con il terrorismo e il rispetto dei diritti umani.

L’agenzia stampa Bloomberg spiega in effetti che queste nazioni godono degli investimenti e dei ricavi che rendono floride le imprese di Trump e quindi sono state preservate.

Le motivazioni terroristiche addotte per la messa al bando dei Paesi cosiddetti nemici non convincono i manifestanti di New York, ne tantomeno quelli degli altri Stati dove le manifestazioni si allargano a macchia d’olio, via via che l’iniziale stupore per l’iniziativa trova conferma soprattutto nell’agire dell’ufficio immigrazione, che pur nel caos organizzativo per non essere stato preventivamente avvertito della decisione, si è trovato a fermare dentro gli stessi aeroporti i cittadini provenienti dagli Stati messi al bando.

La Casa Bianca sta cercando di chiarire alcuni aspetti oscuri del decreto come il destino di chi possiede già permessi di residenza o lavoro permanenti, o degli studenti senza documentazione adeguata che, secondo l’ordinanza, dovrebbero essere denunciati dai loro stessi presidi o presidenti di facoltà.

Al momento l’unica certezza l’hanno data quattro giudici che in quattro Stati diversi hanno bloccato l’esecuzione del provvedimento, alcuni adducendone anche l’incostituzionalità poiché il provvedimento discriminerebbe i cittadini a seconda della religione.

La folla del parco fatta di tante famiglie con bambini, giovani studenti, ma anche veterani grida con fermezza: «Dillo chiaro, dillo forte: i rifugiati sono i benvenuti», o ancora: «Nessun muro, nessuna proibizione». E c’è chi regge cartelli con scritto: «Non sotto i miei occhi» e «Io non sto zitto».

Era dai tempi del Vietnam che non si vedevano simili folle, scendere in campo contro il proprio presidente. Neppure l’11 settembre e la guerra in Iraq erano riusciti a provocare tali proteste. Accompagno la gente per qualche minuto. È composta, attenta a lasciare spazio a tutti, creativa negli inni e negli slogan e le sue voci mi seguono fin dentro al Museo quando appena entrata nell’auditorium mi colpiscono come un pugno le parole di Wiesel, recitate da un sopravvissuto: «Oggi tutto è possibile, anche le crudeltà. Io quel giorno al campo non ho più avuto un nome. Ero un numero, il 7713. Non ero una persona. Ma io non ho mai dimenticato l’odore di quei corpi bruciati, le fiamme che li consumavano e con loro consumavano la mia fede, mentre vedevo trasformati in cenere tutti i miei sogni».

Solo una coincidenza o un serio campanello dall’allarme queste frecce di Weisel? Si comincia sempre dai numeri, per non pensare alle persone e si comincia sempre a considerare pericolosa una parte, una minoranza: gli ebrei e gli zingari prima e i musulmani iracheni, libici, sudanesi, ora. Si bandiscono, poi si puniscono e poi… Esagerazioni? Forse sì, ce lo auguriamo tutti.

Intanto però alcuni docenti universitari ebrei hanno chiesto che le loro istituzioni diventino dei sanctuary, cioè luoghi di rifugio e di asilo dove chiunque vi risiede venga protetto e difeso.

Molti ebrei si salvarono proprio perché trovarono accoglienza anche nei sanctuary cattolici e nelle chiese e questa memoria è vivissima sia in chi ancora vive e sia nei figli dei sopravvissuti che sono a loro volta diventati testimoni dell’orrore e della salvezza.

La conclusione della serata è affidata alla figlia di Weisel, Elisha che preferisce lasciare al padre il saluto finale, attraverso gli stralci del discorso tenuto in occasione del conferimento del Nobel nel 1986: «Auschwitz ha messo in discussione una civiltà e ha messo in discussione tutto ciò che preceduto Auschwitz: le teorie scientifiche, le contese sociali ed economiche, il nazionalismo, la xenofobia, il fanatismo religioso, il razzismo, l’isteria di massa. Tutto ha massima espressione ad Auschwitz.

Dopo la guerra, testimoniare è diventato un’ossessione e abbiamo pensato che sarebbe stato sufficiente raccontare l’ondata di odio verso il popolo ebraico, per porre fine all’odio di chi è “diverso” – sia bianco o nero, ebreo o arabo, cristiano o musulmano – o chiunque abbia un altro orientamento politico, filosofico, sessuale.

Se qualcuno ci avesse detto che nel corso della nostra vita avremmo ancora visto infuriare guerre di religione, che migliaia di bambini sarebbe ancora morti di fame, non ci avremmo creduto.

O che il razzismo e il fanatismo sarebbero fioriti di nuovo, non ci avremmo creduto. E che i governi avrebbero torturato scrittori, scienziati, intellettuali dissenzienti non ci avremmo creduto. Come spiegare allora questa sconfitta della memoria? Ricordiamoci di Giobbe che dopo aver perso tutto ha trovato il coraggio di ricominciare. L’umanità oggi ha bisogno di pace più che mai, ma la pace non è un dono di Dio alle sue creature, è il nostro dono gli uni agli altri».

(Per inciso, Trump ha firmato il decreto esecutivo contro i rifugiati proprio nel giorno della Memoria, quasi in contemporanea con il messaggio inviato alle comunità ebraiche, dove citava le vittime di tutte le persecuzioni senza però nominare la parola Olocausto…)

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