Rileggere i classici dell’economia
Filosofi morali scozzesi, scuola francese, napoletana e milanese, ma soprattutto lui Adam Smith. Per tutti costoro erano valori economici imprescindibili la prudenza e l'indipendenza. Quel valore hanno oggi? Un po' di storia dell'economia con Le nuove virtù del mercato di Luigino Bruni a spasso tra teoria e buone pratiche per il secondo appuntamento della rubrica.
«Le due principali virtù che la visione classica dell’economia ponevano a base (magari senza esplicitarlo troppo) erano, e sono, l’indipendenza (virtù tipicamente di derivazione stoica) e la prudenza. La prudenza (che in un certo senso include l’indipendenza) era talmente importante in Smith che un autore contemporaneo di una certa rilevanza ha criticato la teoria etica ed economica di Smith proprio per aver visto basato il suo sistema sulla sola virtù delle prudenza, trascurando le altre (McLoskey 2006).
«Partiamo, anche qui, da ipotetiche esperienze quotidiane.
Andrea entra nella pescheria sotto casa per acquistare, da Bruno, del pesce fresco. Andrea tende 20 euro a Bruno, e quest’ultimo gli dà in cambio del buon pesce spada dello stretto di Messina. Si realizza in questo modo uno dei tanti fenomeni che comunemente chiamiamo scambio di mercato. Prima di entrare all’interno dell’analisi di questo scambio di mercato per cercare di analizzarlo da una prospettiva non troppo usuale per il modo ordinario di intendere oggi l’economia, poniamoci una domanda di carattere più generale: che cosa è avvenuto tra Andrea e Bruno dentro quella pescheria? La risposta che possiamo offrire dipende evidentemente dai punti di vista, e, soprattutto, da che cosa vogliamo e siamo capaci di “vedere” in quell’incontro umano tra due persone. Le discipline sono anche, e forse soprattutto, una prospettiva sulla realtà, un punto di vista che è sempre un aspetto del fatto che si vuole spiegare. Le varie discipline sono, quindi, sempre necessariamente imperfette e parziali, e se si vuole uscire dai libri di testo e dai modelli e capire che cosa succede nella vita (compreso quel brano di vita che si svolge dentro le tante pescherie del mondo), è necessario un approccio interdisciplinare e far dialogare tutte le discipline con la vita (che è sempre eccedente rispetto a qualsiasi teoria su di essa).
«Un sociologo di passaggio in quel negozio, ad esempio, potrebbe vedere in quell’incontro tra Bruno e Andrea un’eco dei tanti marinai mal pagati e spesso irregolari che stanno sotto quel pesce spada venduto. Il suo pensiero potrebbe andare con ogni probabilità a quei rapporti umani «celati sotto l’involucro delle merci», per usare le belle e efficaci parole di Marx ne Il Capitale (p. 91).
Un assessore comunale che osservasse la scena sarebbe forse portato a riflettere sulla situazione economica del commerciante Bruno che per non soccombere nella concorrenza con i grandi ipermercati non si paga da mesi lo stipendio e sta prosciugando i risparmi di una vita pur di non chiudere la pescheria ereditata dal nonno, che per Bruno e la sua famiglia è molto più di un business perché incorpora qualcosa di importante della sua storia personale e comunitaria.
«Un ambientalista, invece, guardando quello scambio “denaro-pesce” potrebbe pensare, triste, ai grandi impresari del mare che si arricchiscono impoverendo sempre più la fauna ittica dei nostri fondali, e magari stava andando a organizzare in una piazza vicina una manifestazione contro la pesca del pesce spada nel Mediterraneo. E potremmo continuare aggiungendo altri punti di vista, altre prospettive su quello stesso fatto umano che si compie all’interno del negozio.
E che cosa “vedrebbe” in quello scambio un economista? Un economista tradizionale o standard, cioè uno dei miei tanti colleghi che insegna la scienza economica nelle tante università del mondo (ormai tutte troppo uguali, dagli USA a Nairobi), spiegherebbe quel che accade dentro la pescheria come uno scambio tra cose, mediate dalle persone; e se avesse una lavagna lo rappresenterebbe così:
A è B, B è A
con l’ulteriore specificazione che il valore delle due transazioni (indicato dalle due frecce) è equivalente; e se conoscesse un po’ di sociologia o antropologia potrebbe aggiungere che il valore equivalente è ciò che distingue, nell’Occidente moderno[1], un contratto commerciale da uno scambio di doni. Se poi volesse spiegare qualche cosa di più direbbe che lo scopo o la motivazione di Andrea è ottenere il pesce per il suo pranzo, e quelli di Bruno avere il denaro da Andrea: ciascuno offre qualcosa all’altro come mezzo per raggiungere il proprio scopo, senza che tra i due
si formi intenzionalmente alcun agente collettivo né azione congiunta.
«Tutto questo discorso semplice (che forse sono riuscito anche a complicare) è stato nel 1776 eretto da Adam Smith a caposaldo della fondazione dell’economia politica e sintetizzato con una frase tra le più celebri delle scienze sociali: «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla consapevolezza del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo [self-love], e parliamo dei loro vantaggi e non delle nostre necessità» (1975[1776], p. 92)[2]. In che senso e perché potremmo chiamare un tale comportamento del macellaio-birraio-fornaio una virtù (o quantomeno non un vizio), sebbene sia mosso semplicemente dagli interessi personali? Questa operazione di considerare la ricerca dell’interesse personale non un vizio (quello dell’avarizia, come accadeva normalmente nell’ancient régime), ma una virtù, inizia nel medioevo, ma si compie progressivamente nella modernità.
«Un ruolo fondamentale nella trasformazione etica dell’interesse da vizio in virtù l’hanno svolta prima il monachesimo (soprattutto quello occidentale, benedettino in particolare), e dopo il XIII secolo il movimento francescano, che, sebbene con sfumature diverse, iniziarono a considerare il commercio e la ricerca degli interessi non necessariamente in contrasto con la morale e con la virtù. Fu soprattutto grazie al movimento francescano, che ha avuto un’influenza enorme in tutta la cultura economica e sociale del tardo medioevo fino a tutto l’umanesimo e al rinascimento italiano, che fece la comparsa il tema della cosiddetta “eterogenesi dei fini” o degli effetti non intenzionali delle azioni umane (che Hegel chiamerà l’”inganno della ragione”, e Vico “Provvidenza”), un tema che sarà tra le grandi nuove idee del Settecento europeo e dell’illuminismo.
«Gli esponenti della scuola napoletana – Vico, Galiani e Genovesi – sono stati i primi a utilizzare una vera e propria teoria dell’eterogenesi dei fini (come si nota dalle frasi di Vico e Galiani che ho riportato, non a caso, in esergo ai capitoli II e III), e in Ferdinando Galiani ritroviamo persino, e una decina di anni prima di Smith, anche la metafora della “mano”.
In questo periodo luminoso nella storia dell’Occidente si iniziò allora timidamente (anche perché andava contro il pensare comune dell’etica cristiana del tempo) a sostenere che la moralità di un’azione non la si misura soltanto, né forse principalmente, dalle motivazioni (altruistiche o autointeressate) dell’agente, ma anche, e soprattutto, dai risultati che produce, dai frutti. Quindi se il mercante – diranno sul tramonto del medioevo francescani come Pietro Olivi o laici come Poggio Bracciolini (e il suo trattato De Avaritia del 1428, in pieno umanesimo civile[3], e non a caso): cf. Zamagni (2010) – fa muovere le ricchezze stagnanti e putride nei forzieri, mette in circolazione risorse, crea posti di lavoro, tutto ciò è virtuoso perché aumenta il benessere pubblico e la ricchezza della nazione, un elemento che è più rilevante rispetto al movente (che può anche essere la cupidigia o il piacere) che lo spinge a sviluppare la sua attività mercantile. Inizia già nel medioevo l’attenzione, da parte di autori interessati non solo alla metafisica ma anche alla vita civile, per le azioni dell’“uomo quale è”.
«Occorre infatti tener presente che il giudizio morale nei confronti della ricerca della ricchezza cambia molto con la nascita delle protoforme di economia di mercato. In un mondo senza mercati, feudale e fondato sul rapporto servo-padrone, la ricerca della ricchezza è sia vizio privato sia vizio pubblico, poiché chi cerca la ricchezza e i comodi o il lusso per sé produce pochi o nessun vantaggio per la collettività: per consumare i beni del mio comfort ho servi e schiavi, e magari la guerra per approvvigionarmi di mercanzie. Il discorso cambia quando iniziano le prime forme di economie di mercato, quando il ricco inizia ad aver bisogno di altra gente per poter soddisfare i propri bisogni e capricci di vanità e piacere: deve iniziare a pagare le sue stoffe, i suoi cuochi di qualità, e magari qualche artigiano. Ecco allora che quel suo vizio individuale (perché espressione di passioni antisociali come l’avarizia, la gola…) inizia a produrre le prime virtù sociali, poiché fa girare ricchezza e aumenta la mobilità sociale. Un tema, questo, profondamente legato al dibattito sul lusso, che segue la stessa evoluzione.
Questo passaggio epocale nella storia dell’umanità (dell’Europa in particolare), è messo in luce magistralmente in un passaggio di Antonio Genovesi.