Rigoletto a Caracalla
L’opera rivelazione della drammaturgia di Verdi è il ritratto di un uomo che pur sconfitto resta forte. Il pubblico continua ad apprezzare la rappresentazione della lotta della vita tra decadenza e eroismo.
A Roma, nello scenario delle Terme di Carcalla, torna l’opera di Verdi. Fra tutte, prevale ad ogni ascolto la sensazione, direi la certezza, che essa è il capolavoro assoluto del maestro. Tutte le caratteristiche della sua arte, infatti, sono sintetizzate in un teatro della vita, ruvido, secco, rapido. Certo, Verdi amplierà e approfondirà gli orizzonti culturali ed artistici, diventerà tecnicamente più raffinato,ma qui si assiste alla rivelazione diciamo così verginale, allo stato puro, dell’essenza della sua drammaturgia: un immenso atto d’amore verso l’uomo.
Per Verdi l’uomo è solo, in mezzo alle violenze della vita, dove la tristezza sovrabbonda sulla gioia. La fede, quando c’è, è espressa da creature femminili in situazioni disperate o in momenti di estasi quasi ipnotica ( si veda l’aria “Caro nome”, o più avanti, il finale dell’Aida).
Ma il mondo di Verdi non è un mondo “decadente”, ma forte, virile sempre, anche nella tragedia. Così Rigoletto, perfido buffone e padre iperprotettivo, lacerato dai rimorsi della sua cattiveria – la maledizione che il conte Monterone, da lui insultato, gli ha lanciato – e attirato dalla purezza ingenua della figlia, è creatura scespiriana che sa di perdere la sua vendetta contro il potente Duca, eppure tenta e pur sconfitto e accasciato, resta un forte. E’ la fortezza del pianto – mai parola fu più usata nei melodrammi da un compositore -, dell’impotenza di un uomo che ha tentato di essere Uomo e non v’è riuscito.
Eppure, alla fine dello splendido terzo atto, non si esce angosciati, ma presi da qualcosa di vero, di autentico. Insomma, dalla vita. O meglio, da una interpretazione della vita. Perché la fatuità del duca è la superficialità dei potenti di ogni tempo; l’innocenza di Gilda è l’eroismo di cui i giovani sono capaci; e il dissidio bene-male di Rigoletto è quello delle passioni interne contro cui ciascun uomo, se è uomo, lotta.
Certo, quest’opera che parte fulminea e tragica, memore del Don Giovanni mozartiano, già dal breve Preludio, si presta ad una lettura a diversi livelli, sempre nuovi: per esempio l’ingenua Gilda, così romantica, si “ribella” al padre e sulla ribellione dei figli al padre in musica ci sarebbe molto da dire…L’opera, dai passaggi musicali assai noti – da “Cortigiani vil razza dannata”, a “Caro nome”, da “Vendetta, tremenda vendetta” a “La donna è mobile”…- è una corsa rapida verso il finale, dove la morte della ragazza è l’unico raggio di purezza in una partitura fosca, un miscuglio di passioni, di falsa allegria, piena di ansietà. La musica, inutile dirlo, è bellissima, mai banale anche in certi cori saltellanti che hanno qualcosa di tragicomico.
L’edizione romana contava su un direttore di larga esperienza come Donato Renzetti che ha diretto una versione tradizionale con i consueti tagli e i consueti acuti non scritti, ma che piacciono al pubblico. Buoni gli interpreti: Vladimir Stoyanov, Rigoletto che ha bella voce quando non sforza; Celso Abelo, Duca svettante; Jessica Pratt, Gilda non sempre angelicata (per fortuna). Assai bravo il coro, intonato, unito. L’allestimento di Maurizio Varano, rispettoso della maestosità delle rovine, si è limitato a poche cose, come un muro semovente di mattoni, e la regia di Lamberto Puggelli è stata serena, senza guizzi. Pubblico folto, molti applausi.