Rifugiati ucraini, l’accoglienza della Moldavia
L’invasione russa dell’Ucraina ha sconvolto il mondo e in particolare l’Europa. Dal Paese sotto assedio sono fuggiti oltre sei milioni di persone, più di sette milioni sono invece gli sfollati interni, le cui case sono state distrutte, che sono stati costretti a scappare dai combattimenti. Gli Stati confinanti come Polonia, Romania, Ungheria, Moldavia e Slovacchia si sono trovati ad affrontare un’emergenza inedita.
A Chisinau, capitale moldava, i militari a cui è stata affidata dal governo la gestione dell’emergenza rifugiati spiegano che la Repubblica di Moldavia non aveva esperienze precedenti nel far fronte all’arrivo di un tale flusso di persone. La risposta è stata l’istituzione del Single Center for Crisis Management, che ha l’obiettivo di garantire condizioni accettabili ai rifugiati mettendo in campo risorse interne e coordinando gli aiuti internazionali.
In un Paese già di per sé dalle condizioni economiche precarie, in cui lo stipendio medio si aggira attorno ai 300 euro al mese, la risposta di solidarietà è stata tempestiva. Il colonnello Adrian Efros, alla guida del Single Center, sottolinea che l’aiuto internazionale è vitale non solo nell’immediato, ma anche a lungo termine. In Moldavia sono transitati dall’inizio del conflitto 430mila rifugiati e quasi 100mila di questi hanno deciso di restare sul territorio. Per garantire proprio a queste persone prospettive future, i programmi messi in campo per la loro accoglienza vanno pensati anche in riferimento ai risvolti che avranno nei prossimi anni. In questo momento la priorità però è ancora la gestione dell’emergenza.
Attualmente oltre il 90% dei profughi ucraini in Moldavia sono ospitati dalle famiglie del posto, coordinate dalle autorità centrali. Il restante 10% è distribuito nei 96 centri profughi sparsi per il Paese. Il principale e probabilmente meglio organizzato di questi si trova a Chisinau, allestito nel più grande spazio espositivo della capitale. Il MoldExpo fino a novembre 2021 era un centro per l’emergenza Covid-19, ora è il principale centro d’accoglienza rifugiati. I profughi solitamente sostano per qualche giorno, in attesa di trovare un alloggio nel Paese o un passaggio per qualche altro Stato europeo.
La grande maggioranza dei rifugiati che arrivano in Moldavia provengono dall’Ucraina meridionale. In particolare da Odessa, che dista solo un’ora di macchina dal valico di confine di Palanca, il principale per l’entrata nella Repubblica di Moldavia. Il grosso degli arrivi si è concentrato tra fine febbraio e metà marzo, ora i flussi sono nettamente diminuiti. I profughi che si sono stabilizzati nel Paese vivono nell’attesa di poter tornare a casa. Un ritorno senza una data prestabilita e che li lascia nell’incertezza di non poter far programmi per il futuro.
Molte di queste persone, principalmente quelle che vengono da Odessa, a casa ci tornano periodicamente. Ci vanno però solo in giornata per assicurarsi che la loro abitazione sia ancora intatta, per recuperare vestiti e oggetti dimenticati in preda alla fretta della prima fuga e soprattutto per incontrare i cari che non sono potuti partire. Quelle dei rifugiati ucraini sono storie di famiglie separate, di mariti e padri che non possono lasciare il Paese e di mogli e figli costretti a una fuga durante la quale non fanno che guardarsi indietro.
Irina, rifugiata di Odessa che ora vive a Chisinau con il figlio piccolo, racconta che per vedere il marito ogni tanto va al confine. Si incontrano per qualche ora per poi separarsi di nuovo. Il giorno in cui la incontriamo al MoldExpo indossa un elegante soprabito turchese, dei jeans e degli orecchini. I vestiti li ha recuperati dalla sua casa a Odessa solo qualche giorno prima. Spiega che quella mattina è stata la prima, dopo un mese in Moldavia, in cui ha potuto e voluto vestirsi come faceva di solito prima dello scoppio della guerra. Il tentativo era quello di provare a ricreare un senso di “normalità” ormai perduta, per riempire in qualche modo il vuoto che la separa dal momento in cui potrà tornare a casa.
C’è anche chi la casa l’ha lasciata pur non essendo uscito dall’Ucraina, sono gli sfollati interni. Tra le loro principali destinazioni d’arrivo c’è Cernivci, città di circa 300mila abitanti nel sud-ovest del Paese. Un centro abitato che non è mai stato bombardato e la cui architettura, nel centro storico scampato alla furia russa, rimanda al passato austro-ungarico piuttosto che agli anni passati sotto il controllo sovietico. Qui a fine marzo erano già arrivati oltre 62mila rifugiati, che sono stati accolti dalle associazioni locali supportate dagli aiuti internazionali. Molti ucraini che sono scappati dai luoghi sotto bombardamento e hanno riparato a Cernivci hanno poi deciso di rimanere lì. Lasciarsi alle spalle la propria vita e uscire dal proprio Paese, anche quando è in guerra, è un passo che non tutti sono disposti a compiere.
Oggi la guerra è nella sua seconda fase, ma non sappiamo quante ancora se ne susseguiranno. L’aspetto umanitario della catastrofe richiede un livello di attenzione almeno pari a quello riservato all’evoluzione militare del conflitto e allo scompiglio prodotto dai suoi risvolti internazionali. La guerra è fatta di bombe, armi, avanzate e ritirate, ma è fatta soprattutto della vita e della morte delle persone che, trovatesi in mezzo alla tragedia, cadono oppure sopravvivono e resistono.
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