Riforme, sciopero generale e prospettive future

Il primo ministro Manmohan Singh, al termine del secondo mandato, annucia una nuova riforma economica, con investimenti diretti dall’estero nel settore del commercio al dettaglio. Le proteste hanno paralizzato il Paese
Manmohan Singh

Le ultime settimane hanno visto l’India, uno dei Paesi del Brics, vivere una fase interna problematica, legata a proposte di riforma economica da parte dell’attuale governo. Protagonista è Manmohan Singh, il primo ministro che si avvia al termine del secondo mandato. Agli inizi degli anni Novanta, chiamato come tecnocrate a far parte del governo dell’allora primo ministro Narasimha Rao, fu capace di aprire l’economia indiana, fino ad allora legata a modelli autarchici, a investimenti stranieri, pur con un oculato monitoraggio da parte degli organi interni della finanza. Proprio l’accortezza di Singh e del sistema da lui avviato negli anni finali del secolo scorso ha permesso al Paese di creare la piattaforma su cui è esplosa la crescita economica dei primi anni Duemila.

Il panorama attuale non è più così roseo, sebbene il tasso di crescita si sia attestato attorno al 5 per cento. Anche i Paesi del Brics, infatti, non possono ignorare la crisi che attanaglia l’Europa e il mondo occidentale in genere. Al suo interno, inoltre, il gigante asiatico continua a convivere con grandi contraddizioni sociali: estrema ricchezza ma anche povertà diffusa e, spesso, cronica dipendenza quasi assoluta dalla stagione delle piogge per raccolti e produzione agricola, tensioni sociali ed etniche.

In questo panorama complesso, Manmohan Singh ha proposto una nuova riforma economica che mira ad aprire il Paese a investimenti diretti dall’estero nel settore del commercio al dettaglio, riducendo al contempo i sussidi da parte del governo. Questo favorirebbe, per esempio, l’entrata delle grandi catene commerciali che, molti affermano, presenterebbero un pericolo per la sopravvivenza del sistema dei negozi, negozietti e dei venditori occasionali sulle strade, che caratterizza da sempre l’economia spicciola del Paese. Si prospetta, inoltre, una nuova politica nei settori chiave delle pensioni e delle assicurazioni. Le proposte hanno creato una forte reazione da parte dell’opposizione e di altre forze politiche e sociali, culminata in uno sciopero nazionale che la settimana scorsa ha paralizzato l’intero Paese.

Una protesta che, secondo la Confederazione delle Industrie dell’India, è costata alla potenza asiatica 2 miliardi e 25 milioni di dollari, volatilizzatisi in un solo giorno. Ha, tuttavia, unito in un’alleanza inedita le forze tradizionalmente di sinistra (i vari partiti comunisti esistenti nel Paese) e quelle della destra, guidate dal Bharatya Janata Party (Bjp), che spera dopo due mandati all’opposizione di riguadagnare la guida del governo nelle prossime elezioni, ormai non lontane.

Il primo ministro Manmohan Singh si trova al centro di polemiche e di accuse non solo per le proposte del suo governo, ma anche per scandali di cui si accusa il Partito del Congresso e vari suoi membri. Il suo destino pare legato da strane coincidenze e scherzi della storia a quello di Narendra Modi, da un decennio primo ministro dello stato del Gujarat, accusato di aver provocato e fomentato nel 2002 scontri fra musulmani e indù che fecero centinaia di vittime. Entrambi, su fronti opposti e con ideologie molto lontane l’una dall’altra, si trovano impegnati in programmazioni economiche che diano sempre più credibilità al Paese, uno, e allo stato del Gujarat, l’altro. D’altra parte entrambi si devono difendere da accuse di genocidio religioso, Modi, e di corruzione, Singh.

Le riforme operate da Manmohan Singh nell’ultimo ventennio hanno, senza dubbio permesso una crescita economica ed uno sviluppo sociale con la formazione di una classe media in costante espansione, ma non sono state accompagnate – nota Nirendra Dev in un recente libro intitolato Modi to Moditva: an Uncensored Truth – da adeguamenti corrispettivi a livello di sistema amministrativo, giudiziario e di sicurezza pubblica. Da ogni angolo del Paese si concorda che la corruzione resta un nodo irrisolto che rischia di inficiare qualsiasi tipo di riforma nei diversi settori.

I diversi scandali non hanno indebolito solo l’immagine del governo, ma anche il suo peso politico, dopo che l’on. Mamata Banerjee, una donna bengalese soprannominata la "tigre del Bengala" per la sua proverbiale forza e grinta politica, è uscita con i membri del suo partito dalla coalizione di governo. L’esecutivo reagisce sottolineando come l’obiettivo delle riforme sia quello di favorire investimenti stranieri creando nuove opportunità di lavoro oltre che di produzione locale, afferma il ministro del Commercio, Anand Sharma.

Non mancano, poi, coloro che accusano gli oppositori delle riforme di essere pessimisti e annunciatori di sventura, come lo erano stati in molti in occasione delle riforme del 1991. Manmohan Singh, per anni protagonista del miracolo economico dell’India, è ora da molti definito il leader più debole che il Paese ha avuto nella sua storia dopo l’indipendenza e tendono a criticarne anche le capacità di economista. Il momento è, senza dubbio delicato e problematico, ma potrebbe essere l’occasione per nuove prospettive per il prossimo decennio nel contesto della globalizzazione e della crisi finanziaria mondiale.
 

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