Riformare l’ONU o l’equilibrio internazionale?
Se c’è una tendenza che caratterizza l’attuale fisionomia della Comunità internazionale questa è la vocazione ad accentrare alcune delle funzioni comuni agli stati. Certo non è un dato applicabile ad ogni situazione, ma resta un evidente bisogno dettato almeno dalla necessità di non restare esclusi dai mutamenti in atto, costanti e spesso drammatici, come quelli registratisi nell’ultimo periodo. E l’Onu in tutto questo? La realtà quotidiana, anche quella che si percepisce dal Palazzo di Vetro, spinge a dire, con estrema coerenza, che proprio i mutamenti strutturali dell’ordine internazionale richiedono un concreto passo verso la riforma dell’Organizzazione. La riforma, allora, sarebbe un’aspirazione legittima, ma, alla luce dell’esperienza sin qui acquisita, forse difficile da realizzare. E non tanto per questioni di ordine procedurale come si vuol far credere. Gli addetti ai lavori sanno bene che i meccanismi di revisione e modifica della Carta delle Nazioni Unite, infatti, sono praticabili… nonostante i quasi sessanta anni di vita. E poi come dimenticare che, senza grandi clamori, l’Onu è stata capace di riformarsi in questi anni quando c’è stata la volontà dei suoi membri? Vengono in mente quelle operazioni di mantenimento della pace di cui tutti parliamo per evidenziare il ruolo positivo dell’Organizzazione nella soluzione dei conflitti e nell’avviare i paesi coinvolti verso una vita civile pacifica. Ebbene di questo tipo di interventi – sono diversi quelli in corso – non c’è segno nella Carta dell’Onu, ma c’è ampia traccia nella volontà dei suoi stati membri. Quella stessa volontà che – almeno sin qui – risulta oggi carente, lasciando lo spazio, con evidenza e lucidità, all’immagine che nel quadro dell’Organizzazione si giocano ben altri processi di riassetto dell’ordine internazionale: si torna a cercare quel giusto equilibrio da sempre obiettivo delle politiche di potenza nelle fasi di mutamento del modello di relazioni internazionali, come è quella che stiamo vivendo. Risulta forse difficile pensarlo, ma la riforma di cui si parla non riguarda l’Onu, alla quale si pensa soltanto di garantire un futuro di limitata incidenza nelle relazioni internazionali. O meglio che permetta di continuare a pensare alle Nazioni Unite come struttura funzionale all’azione de- gli stati e non capace di governare unitariamente tale azione. L’approccio in atto circa la riforma delle Nazioni Unite, infatti, conferma come possano coesistere da un lato procedure e proposte di riassetto dell’apparato amministrativo che favoriscono un intervento a due voci tra il Segretariato e l’Assemblea generale (rappresentativa di tutti gli stati ma anche della società civile nelle sue diverse forme e modalità di organizzazione); dall’altro il desiderio delle vecchie e nuove potenze di ridisegnare i reciproci equilibri (è così che si spiega la partita sui nuovi membri permanenti nel Consiglio di sicurezza), continuando però a ribadire la volontà che nel febbraio del 1945 a Yalta disegnò un Consiglio di sicurezza con la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, addirittura riconoscendogli la capacita che nell’adempiere a tale responsabilità, agisce in loro nome. Una formula stabilita dall’articolo 24 della Carta dell’Onu e che oggi si riversa su tutti gli stati membri dell’Organizzazione. È chiaro l’intreccio di due interessi: quello degli stati membri – o almeno di una parte di essi – a non voler porre mano ad una vera riforma; e quello dell’apparato amministrativo dell’Onu a diversi livelli – dai funzionari, agli organi tecnici, agli esperti di diverso tipo – che tende ad accrescere o almeno a stabilizzare verso l’alto la propria incidenza sulle attività dell’Organizzazione (da questo secondo profilo non sembra estraneo uno stile di vita, una cultura e un progetto di società che ingloba anche le Nazioni Unite…). Spazi limitati, allora? Forse, ma è qui la sfida. Sul piano della prospettiva politica si potrebbe concludere che la riforma va perseguita con un’adeguata e coerente applicazione del principio di sussidiarietà: suggerimenti ed idee vanno fatti partire dal basso, da un’opinione pubblica adeguatamente formata e perciò capace di formulare con credibilità le proprie proposte. Ma c’è una conseguente strategia d’azione che si può contribuire a disegnare cercando di dare a tale proposta la dovuta effettività, per usare il linguaggio delle relazioni internazionali. Le idee di riforma sono da inquadrare nella situazione geopolitica del mondo – in ogni profilo: umano, politico, strategico-militare, economico, sociale, giuridico – e non solo a livello globale, ma anche in una prospettiva funzionale alle singole aree. Un esempio è dato dal ruolo che possono svolgere le commissioni regionali delle Nazioni Unite (ne esistono cinque, per i diversi continenti). La loro attività si è concentrata negli anni sul profilo socio-economico, con il rischio di leggere in modo limitato la portata del Preambolo della Carta nel quale i popoli impegnano i propri governi non solo a combattere la fame, le malattie, la povertà, ma anche ai più ampi obiettivi della pace, della sicurezza, della giustizia, del primato della persona e dei suoi diritti. Più complessa è poi la relazione tra la realtà degli organi interni e le finalità delle Nazioni Unite. Guardando l’Assemblea generale, ad esempio, se risulta importante sottolinearne la natura di organo rappresentativo di tutti gli stati membri, più complesso appare interpretare la coesistenza al suo interno di gruppi e raggruppamenti incrociati di stati, portatori di interessi che rischiano di contrapporsi a quelli dell’Onu, almeno per il fatto che sono più immediatamente realizzabili. E poi resta da affrontare il nodo delle competenze rispetto agli altri organi principali, partendo dal delicato – e sostanziale – rapporto con l’autorità del Consiglio di sicurezza. Per quest’ultimo va anzitutto affrontata la questione della sua collocazione nel contesto dell’Organizzazione per non farlo più apparire quale struttura esterna quanto alla sua posizione, ai suoi poteri ed al suo operato in materia di sicurezza e di azione per la pace. Quale attenzione rivolgere all’uso della forza, armata o non militare, contemplata nella Carta dell’Onu? L’esperienza recente impone che le misure di forza siano interpretate alla luce della ricaduta sulle popolazioni – i cosiddetti effetti umanitari ed economici – anche se tali provvedimenti sono presi nei confronti della condotta di un governo. Si evidenzia poi un ruolo rinnovato delle Organizzazioni regionali che non può più essere ricondotto a generali princìpi senza riconoscere una distinzione tra il ruolo dell’Onu e quello delle Organizzazioni regionali. Resta l’esempio della collaborazione attivata con la Nato nel conflitto della ex- Jugoslavia che va di nuovo interpretata dopo la definizione del concetto di sicurezza allargata formulato dalla Nato a seguito dell’intervento in Kosovo nel 1999. L’azione per la cooperazione e lo sviluppo è nel profilo operativo quella quantitativamente più consistente. Chiama in causa il Consiglio economico e sociale (Ecosoc) che andrebbe fornito della necessaria capacità decisionale e non solo di indirizzo. In questo modo si potrebbe definire in concreto il coordinamento tra tutte le strutture intergovernative operanti nel settore della cooperazione quanto alla progettazione, ai finanziamenti e al loro utilizzo in ragione dei bisogni delle popolazioni beneficiarie, alla collaborazione con la società civile. E così risulterebbero forse coordinati anche gli impegni dei piani d’azione delle recenti conferenze e vertici con l’esistente e variegato panorama di programmi e attività di cooperazione. Tra l’altro come far fronte alla diminuzione dei finanziamenti multilaterali a cui per altro non sembra corrispondere un aumento di quelli bilaterali? Quanto al metodo, è chiaro che la riforma è da confrontare con le regole interne dell’Organizzazione e non con i suoi principi ispiratori, almeno nell’immediato. Questo non solo per evitare che si arresti anzitempo – come è già avvenuto puntando ad una riforma del Consiglio di sicurezza – ma perché i princìpi fondamentali della Carta non sono da porre direttamente in discussione: anche se ne abbiamo costatato una palese violazione sono e resteranno i parametri di una legalità internazionale poiché saldamente ancorati al superiore diritto delle genti. L’idea, evidentemente, è di fare delle Nazioni Unite lo strumento di una governance che rispecchi un modello di sinergie tra persone, popoli, governi, società civile e organizzazioni internazionali. Uno strumento sussidiario, e cioè capace di intervenire in ambiti essenziali al futuro della famiglia umana, guidato da principi quali la soluzione pacifica dei conflitti, la prevenzione della guerra, la sostenibilità, la solidarietà, il rispetto della dignità umana. Una riforma, dunque, che renda l’Onu quel centro per il coordinamento dell’attività delle nazioni previsto dall’art.1 della Carta. Prospettiva lontana da chi pensa ancora che la riforma delle Nazioni Unite sia solo un risvolto dell’ennesima ricerca di equilibrio tra le potenze.