Riflessioni sulla Bioetica per il bene comune
«L’eutanasia riceve sempre più l’interesse della politica e dei media. C’è chi dice che siamo rimasti indietro: io mi chiedo, rispetto cosa o chi. Se è vero che in tutto il modo sono meno di una ventina gli Stati che hanno legiferato su questo tema, significa che tutti gli altri sono arretrati? Pare invece che la cultura della morte si stia facendo avanti portando a definire modalità di uccisione legale per persone che spesso si sentono sole, inutili ed un peso per la società». Ne parla Giovanni Marco Campeotto, assistente sociale e papà di famiglia numerosa, autore del volume “Bioetica e professioni di cura. Per una relazione al servizio della persona e del bene comune” (Ed. Ethosjob), presentato nelle scorse settimane presso l’Università Lumsa di Roma in raccordo con la Pontificia Accademia per la Vita. L’autore non è al suo esordio come scrittore: il suo primo libro, dal titolo “Il bene comune passa attraverso la famiglia” (Ed. Erickson), affrontava questioni specificatamente familiari in chiave promozionale. In quest’ultima fatica si occupa di bioetica. Abbiamo intervistato l’autore, per poter riflettere su alcuni, fondanti, temi della sua opera letteraria. Temi che, con tutta probabilità, possono mettere in discussione il concetto che abbiamo sull’esistenza fin dal suo esordio e sul futuro della nostra società.
Campeotto, cosa s’intende per bioetica?
«Una definizione chiara e sintetica è quella data da W.T. Reich nella prima edizione della sua Encyclopedia (1978), che indica la bioetica come studio sistematico della condotta umana nel campo delle scienze della vita e della salute, alla luce di valori e di principi morali.»
Quali le principali tematiche della bioetica?
«Le tematiche spaziano dal consenso informato alla procreazione medicalmente assistita, dalla gravidanza su commissione alla sperimentazione clinica, dall’aborto all’amministrazione di sostegno, dalle disposizioni anticipate di trattamento all’eutanasia, dall’obiezione di coscienza alle istanze della gender theory. Non solo, in bioetica si affrontano, con un’ottica interdisciplinare, anche temi quali la pena di morte, la regolazione della fertilità, l’uso di droghe ed il tabagismo, la terza età ed i temi assistenziali, il doping, il rapporto uomo-ambiente».
Quando possiamo affermare che inizi la vita?
«È quasi un paradosso: la risposta è tanto chiara quanto cruciale, ma pare un tema non più di particolare interesse. Infatti, è assodato e scientificamente provato che la vita inizia dal concepimento, ovvero dal momento in cui lo spermatozoo feconda l’ovulo (si chiama anche fertilizzazione): da qui inizia l’avventura che conduce alla progressiva divisione cellulare ed a tutti quei fenomeni meravigliosi che contribuiscono a plasmare colui che diventerà l’essere umano che poi proseguirà la sua esistenza fuori dal grembo materno. Una risposta che è anche cruciale, poiché è accogliendo questa verità nel suo pieno significato che ne consegue che la vita è degna di tutela fin dal concepimento, e proprio in quanto tale merita la medesima attenzione e protezione in questa e nelle sue altre fasi di manifestazione: l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta, la vecchiaia… Sano o malato, piccolo o grande, bello o brutto, si tratta sempre di un essere umano, di “uno di noi” e non lo possiamo mai trattare né da oggetto né come essere vivente di serie B».
Cosa dire sulla procreazione medicalmente assistita e sull’utero in affitto?
«Affrontiamo qui, pur in modo estremamente sintetico, la delicatissima tematica della genitorialità. Non è facile da accettare: ma non esiste e non può esistere un diritto al figlio (né tantomeno al figlio sano); semplicemente perché è una condizione, quella del diventare genitore, che nessuna norma e nessun intervento biotecnologico può garantire. Con le tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA), seppur a fronte di grossi impegni finanziari e di faticosi interventi sul corpo della donna, l’evento nascita si verifica con tassi di successo decisamente bassi (i fattori sono molteplici e variano a seconda delle metodologie utilizzate, ma qui non entriamo nei dettagli). La PMA non è una cura, ma un intervento che tenta di sostituirsi a quanto avverrebbe normalmente, secondo quanto la natura ha sapientemente stabilito affinchè la specie si possa riprodurre. Il problema è che l’età media delle donne che ricorrono alla PMA è elevata (in Italia, 37,6 anni) e già questo complica le possibilità di successo, sottovalutando che la fisiologia della riproduzione consiglia la gravidanza in un periodo ben precedente. Oltre a ciò, va ricordato che a volte, i problemi si possono affrontare con soluzioni non invasive e senza dover ricorrere alla PMA: ma le industrie biotecnologiche premono. Infine, il figlio non va ‘prodotto’, va accolto come dono e come mistero: anche il concepimento naturale, se ci pensiamo, oltre ad essere un evento di per sé raro, ha del miracoloso quanto a dinamiche, processi e trasformazioni che avvengono; pensare di ridurre la maternità ad un’attività da laboratorio, interviene forzatamente nel suo significato sostituendosi alla generatività che sgorga dall’amore coniugale».
Questo vale ancor di più se pensiamo all’utero in affitto o gestazione per altri?
«Esatto. Qui, l’industria biotecnologica va oltre, proponendo una genitorialità costruita sulla base del desiderio di chi se la può permettere. Donna single, due donne o due uomini o altre combinazioni (a questo punto è indifferente) diventano committenti di un figlio attraverso una donna che affitta il proprio utero per portare a termine una gravidanza per conto terzi. Ci si dimentica che il figlio, ogni figlio, chiede un papà ed una mamma che lo amino e curino: è tutt’altra cosa. Non per nulla è già attivo da anni un movimento che a livello mondiale chiede la messa al bando della GPA come pratica che degrada la donna ad oggetto; lo dicono anche le esponenti di Arcilesbica. Mettendoci dalla parte del figlio e non degli adulti questi fenomeni acquisiscono una luce diversa e chiedono con forza un ricollocamento della scienza e delle biotecnologie dalla parte del bene comune, non del desiderio – pur comprensibile – di avere un figlio»
La legge 6/2004 del Codice civile ha introdotto l’amministratore di sostegno. Come definire questa figura?
«Questo recente istituto giuridico è già maggiorenne e nella sua attuazione ha dimostrato di essere un valido strumento a protezione dei soggetti deboli. Dopo un’attenta valutazione della situazione della persona in difficoltà, il giudice tutelare provvede a nominare colui che avrà il compito di affiancarla per la cura dei propri interessi personali e per prevenire le dinamiche tipiche dell’esclusione o emarginazione sociale. Per individuare la persona più idonea, il giudice analizza la documentazione prodotta dai servizi e verifica la condizione della rete familiare. Definito simile ad un ‘vestito su misura’, l’amministrazione di sostegno ha la possibilità di costruire un dettagliato programma di accompagnamento, attivare i servizi necessari, effettuare scelte importanti in tema di casa o gestione del patrimonio, nonché rispetto ad attività del tempo libero o della vita affettiva. La legge istitutiva è stata votata a larga maggioranza, questo a significare che a volte, l’attenzione ai più deboli può trovare un consenso che sa andar oltre ai confini ideologici o delle strategie di partito».
Anche il tema della vita al suo termine pare sotto i riflettori: cosa ci possiamo attendere?
«A differenza dell’aborto, l’eutanasia riceve sempre più l’interesse della politica e dei media. C’è chi dice che siamo rimasti indietro: io mi chiedo, rispetto cosa o chi. Se è vero che in tutto il modo sono meno di una ventina gli Stati che hanno legiferato su questo tema, significa che tutti gli altri sono arretrati? Pare invece che la cultura della morte si stia facendo avanti portando a definire modalità di uccisione legale per persone che spesso si sentono sole, inutili ed un peso per la società. Un altro esempio di “cultura dello scarto” più volte denunciata da papa Francesco. Non si può definire diritto quello che legittima la soppressione dei soggetti deboli: piuttosto è risparmio nella spesa sanitaria, negazione di un supporto adeguato a chi merita la massima attenzione e spesso non è in grado di chiedere ciò di cui avrebbe bisogno per vivere meglio una condizione difficile. In Italia esiste un’ottima normativa in tema di cure palliative, la L. 38/2010; applicarla in modo serio ed attento sarebbe certamente un ottimo passo nella direzione giusta: quella di accompagnare chi soffre, non quella di sopprimerlo. Promuovere e diffondere la cultura della vita è oggi una necessità che chiede l’impegno di tutti».
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