Rifiuti: anatomia di una sconfitta
Dalla Roma imperiale alle “città puzzolenti”, dal caso Campania alla Green Economy
Nelle giornate frenetiche in cui si discutevano i contenuti della manovra finanziaria di agosto, è stata proposta l’abolizione del “Sistri”, sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti: un grave passo indietro. Per capire cosa sia questa proposta, facciamo un salto nella storia.
Circa 12 mila anni fa, alla fine dell’ultima glaciazione, con l’inizio dell’agricoltura e la formazione dei primi villaggi stabili, i rifiuti umani e animali cominciarono ad accumularsi dove capitava, comprese le pozze d’acqua spesso inquinate. Si diffusero di conseguenza le malattie tipiche dei gruppi densi di popolazione, come morbillo, vaiolo, influenza e dissenteria, trasmesse da animali domestici e/o parassiti intestinali. Nei villaggi trovarono ospitalità anche topi e insetti, che diffondevano altre malattie come la peste. Vita sedentaria e disponibilità di cibo favorirono l’aumento della popolazione mondiale a 200 milioni di individui. Era l’alba delle grandi civiltà.
Roma
Nelle città antiche, il problema di portare l’acqua agli abitanti fu risolto con la costruzione di apposite condotte. Ma solo i romani intuirono l’importanza di costruire nella città caput mundi, oltre agli 11 acquedotti che alimentavano fontane e terme (più di mille), anche le fogne. Già nel 600 a.C. realizzarono la Cloaca massima, primo passo dell’imponente sistema fognario che per mille anni avrebbe liberato Roma dall’immondizia. La raccolta era organizzata con canalette di scolo e bocche di fogne nelle strade, latrine pubbliche con acqua corrente, addetti che svuotavano i recipienti per rifiuti posti a pianterreno delle case, rivendendoli come concime agricolo. Persino le urine, per il loro contenuto di ammoniaca, erano riutilizzate nel trattamento dei vestiti. Insomma, Roma da questo punto di vista era unica nel mondo. Poi, con la decadenza, quando la Cloaca massima smise di funzionare, si allineò alle altre città, sporche, malsane e, soprattutto, oppresse da una insopportabile puzza.
Peste, tifo e colera
L’accumulo di sporcizia e l’inquinamento di pozzi e sorgenti per infiltrazioni di liquami sono ambienti ottimali per il proliferare di germi che portano malattie e soprattutto epidemie. Come la peste che, viaggiando lungo le rotte navali e le vie carovaniere del Medioevo si diffuse in tutto il pianeta: l’epidemia del 1350 da sola uccise un terzo degli europei.
Il colera, invece, arrivò più tardi: trasportato via mare dall’India a bordo delle navi commerciali inglesi, colpì Londra e Parigi nel 1832 con centinaia di migliaia di vittime. Poco dopo arriverà in Italia.
Le guerre a loro volta diffondevano le malattie infettive, come tifo e dissenteria. Non si conoscevano ancora i nemici invisibili: solo nel 1854 l’italiano Filippo Pacini identificò al microscopio il batterio responsabile del colera, e nel 1894 Alexandre Yersin quello della peste.
Ingegneri
Terreno fertile per la diffusione delle epidemie erano a quei tempi le città della rivoluzione industriale, tornate a crescere dopo lo spopolamento del Medioevo. Abbandonate le campagne, masse di poveri si riversavano nelle città dove trovavano sporcizia, quartieri fatiscenti, case ammucchiate, rudimentali sistemi fognari, pozzi e fontane contaminati, oltre a centinaia di migliaia di puzzolenti pozzi neri per i rifiuti delle case. Cominciava a diffondersi il wc, ma non era chiaro dove scaricare l’acqua sporca.
Finalmente, le continue epidemie di colera, l’ondata di tanfo nauseabondo che invase Londra nel 1858 e il “Grande puzzo” che ammorbò Parigi nel 1880 con un’enorme eco mediatica, costrinsero i politici del tempo ad adottare provvedimenti drastici. Due tenaci ingegneri con pieni poteri, Bazalgette a Londra e Haussmann a Parigi, sventrarono le loro città, aprendo grandi viali ariosi, imponendo l’allaccio degli scarichi di liquami alle nuove reti fognarie sotterranee, eliminando i pozzi neri, radendo al suolo i quartieri malsani, costruendo grandi vasche dove le acque sporche venivano trattate prima di essere scaricate nel Tamigi e nella Senna, nel momento in cui la marea fluiva verso il mare. Infine imposero l’obbligo, per case, botteghe e negozi, di dotarsi di bidoni metallici entro i quali gettare le immondizie domestiche: nasceva il servizio di nettezza urbana.
Napoli
A fine Ottocento, Napoli era la città più popolosa d’Italia, cresciuta però senza programmazione, con vie strette, un affollarsi di poveri nella città bassa, alta mortalità, acqua non potabile, pozzi inquinati e poche fogne scaricanti in mare. Inesorabile nel 1884 sbarcò il colera e fece strage, per cui si decise il risanamento della città; ma corruzione (degli amministratori comunali), incompetenza e avidità (della ditta appaltatrice), fecero fallire il progetto. Nel 1910, appena un anno prima delle celebrazioni per i 50 anni dell’unità d’Italia, si riaffacciò il colera. La brutta figura per la giovane nazione e il temuto respingimento da parte degli americani dei tanti emigranti italiani in partenza da Napoli, vennero evitati smentendo l’esistenza dell’imbarazzante epidemia, camuffata con picchi di “gastroenteriti” e cordoni sanitari di basso profilo.
Italia
La lezione di Napoli portò alla promulgazione di regole nazionali per l’igiene di case (acqua corrente e gabinetti), strade (larghe) e comuni (acquedotti e fogne). I liquami potevano essere scaricati nei fiumi o in mare, i rifiuti solidi seppelliti in campagna e gli scarti tossici delle industrie ovunque purché fuori città. Solo nel 1976 la legge Merli pose fine allo scarico indiscriminato, anche se, dopo 35 anni, solo metà delle province italiane ha censito gli scarichi! L’aumento della popolazione e la moda dell’usa e getta, nel frattempo, fecero crescere a dismisura la spazzatura. Nel 1994 la legge Galli introdusse la gestione integrata del ciclo dei rifiuti, fino allora spezzettato in una miriade di competenze e responsabilità burocratiche e clientelari: l’Italia venne divisa in 92 ambiti territoriali, per ognuno dei quali acquedotti, reti fognarie e depuratori erano affidati ad un unico gestore a capitale pubblico, privato o misto. La manutenzione però, che costerebbe miliardi di euro, continua ad avvenire a singhiozzo. Per fortuna l’Unione europea ci ha almeno imposto, per l’acqua, l’adozione del concetto: “Chi consuma paga”.
Rifiuti speciali
Per quanto riguarda i rifiuti industriali pericolosi che hanno bisogno di adeguati impianti di smaltimento, dopo il recepimento nel 1982 della normativa comunitaria, la lentezza nella realizzazione degli impianti necessari – per incompetenza, burocrazia, opposizione di Verdi e popolazioni – ha reso difficile per le aziende trattarli legalmente. Il problema l’ha risolto a modo suo la camorra, in combutta con le istituzioni locali, trasformando la Campania nella “pattumiera” d’Italia e affondando navi cariche di veleni di fronte alle coste della Calabria. Milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi sono così spariti in discariche di veleni chimici ben più pericolose di Chernobyl, con guadagni enormi e senza rischio, perché solo nel 2001 questi reati sono diventati punibili penalmente!
Il piano regionale per la gestione dei rifiuti in Campania, attivato nel 1997, si è impantanato tra amministratori corrotti, gare assegnate al minor costo e non alla ditta più competente e seria, contratti capestro, un esercito (25 mila) di addetti ai rifiuti (la Lombardia ne ha 10 mila), differenziata inesistente, smaltimento truccato (vedi box). È tornata quindi la città puzzolente, mentre anche Lazio, Puglia, Calabria e Sicilia sembrano in difficoltà. In sintesi, ancor oggi non si sa dove finisce il 30 per cento dei rifiuti speciali italiani.
In questa situazione, nella recente manovra qualcuno ha provato a cancellare il “Sistri”, sistema informatico per il tracciamento degli spostamenti dei rifiuti pericolosi, che proprio nel settembre 2011 doveva entrare in funzione, con le relative sanzioni. Il ministro Prestigiacomo ha il merito di averlo impedito. Ma, ancora, va messo a punto bene.
Green economy
Per fortuna il futuro si tinge di verde: l’Europa, oltre a spingere differenziata, riciclaggio e recupero di energia con gli inceneritori, vuole intervenire alla fonte, coinvolgendo i produttori di rifiuti. Le imprese dovranno quindi riprogettare i prodotti (e gli imballaggi) per renderli riciclabili, organizzando anche reti per la raccolta dei rifiuti speciali come olii, batterie, frigoriferi, computer, fino alle auto. È la nuova strategia per la protezione dell’ambiente. Se son rose fioriranno, speriamo anche in Italia.
Giulio Meazzini
Le parole dello smaltimento (truccato?)
Depuratore: serie di vasche dove le acque luride perdono gli inquinanti finché rimane acqua pulita e fango; di quest’ultimo una piccola parte viene riutilizzata in agricoltura, il resto finisce in discarica. I reflui industriali devono essere trattati in appositi impianti.
Discarica: deve mantenere i rifiuti isolati, con argilla e teli plastici per impedire infiltrazioni nelle falde acquifere, e coperti con terra per evitare il cattivo odore. I rifiuti pericolosi vanno tenuti separati. Rifiuti non trattati producono biogas.
Inceneritore: brucia i rifiuti trasformandoli in cenere, fino a un residuo inerte inviato in discarica.
CIP6: incentivo a produrre energia elettrica. Pensato per le rinnovabili, ha reso conveniente bruciare i rifiuti invece che riciclarli.
CDR: rifiuti selezionati che possono essere bruciati (carta, legno, plastica…)
FOS: rifiuti che bruciano male (umido, metalli, vetro…). Se stabilizzati non puzzano, quindi sono usati in discarica per coprire gli altri rifiuti.
Ecoballe: vista la convenienza di bruciare tutto, in Campania la differenziata non decollava, la separazione di secco e umido era incompleta, “finto CDR” si accumulava in milioni di ecoballe da bruciare, mentre “finto umido”, non stabilizzato e puzzolente, finiva in discarica.