Rientro a Milano
Al rientro nel capoluogo lombardo per il secondo anno di corso, dunque, ero quantomeno piena di buoni propositi: nuovo appartamento – questa volta senza rompiscatole di mezzo: il coinquilino era il ricco rampollo di una famiglia comasca, che affittava camera con bagno nel suo lussuoso appartamento di Porta Venezia e non era quasi mai in casa –, ingresso nel gruppo giovani della parrocchia per curare un po’ la vita spirituale e fare qualche conoscenza, e soprattutto inizio del percorso terapeutico.
Mi ero infatti lasciata convincere da mia madre a rivolgermi a una psicoterapeuta consigliatale da un’amica: prezzi da spavento, «ma è una delle migliori», quindi «vai tranquilla ché sono soldi spesi bene». Ammetto che non ero del tutto convinta: non tanto del fatto che questa fosse una professionista competente, quanto di aver davvero bisogno di un sostegno del genere.
Però anche lei, accidenti, non ha aiutato. In primo luogo, per quanto le avessi fatto presente che non mi trovavo a mio agio nel rimanere stesa sul lettino a parlare a ruota libera contro il muro, ma sentivo la necessità di un interlocutore, non ha voluto sentire ragioni: «Io lavoro così, punto e basta». Risultato: dopo ciascuna seduta tornavo a casa ancor più nervosa e irritata di prima, e quindi ancora meno determinata a imprimere una svolta alla situazione.
Ma a dare il colpo di grazia alla terapia è stata la fatidica domanda: «Sei fidanzata? », alla cui risposta affermativa lei ha reagito con un gelido: «Impossibile, chi ha di questi problemi non può avere un rapporto sentimentale che dura». La rabbia ha iniziato a bollire forte: ma chi è questa megera che pretende di mettersi in mezzo tra me ed Enrico, e sputare sentenze su che cosa può o non può funzionare tra di noi? SE avevo qualche dubbio sul mio rapporto di coppia, in quel momento mi era passato, se non altro per ripicca verso di lei. Naturalmente sono uscita dalla porta – sbattendola, peraltro – e non mi sono più ripresentata.
Meglio andava il percorso con la dietologa dell’ospedale San Carlo che la psicologa stessa mi aveva consigliato. Se il passo mi era costato, anche perché implicava l’ammissione della malattia sotto il profilo medico, ancora oggi devo ringraziarla per l’impronta che ha dato all’inversione di rotta.
Con la stessa metodicità con cui avevo ridotto le porzioni di cibo, mi ha aiutata ad aumentarle: pochi grammi per volta, per non darmi l’impressione di mangiare di più, ma inesorabili e regolamentati. Insomma, quegli stessi paletti che mi ero prefissata verso il basso, ora me li fissavo verso l’alto, e con il senso di sicurezza dato dal fatto che era tutto sotto controllo – sia del medico che mio.
In questo modo, qualche risultato s’è visto, riportandomi sopra la soglia dei 40 kg; vanificato o quantomeno inficiato però dalle giornate in cui, magari dopo essere stata dalla psicoterapeuta, per reazione uguale e contraria mi gonfiavo lo stomaco a suon di foglie di insalata rigorosamente scondite perché non mi dessero alcun piacere al palato – «Ah, così sarei anoressica? Bene, eccovi serviti».
Un periodo di quelli estremi, a farla breve, in cui alternavo giornate di umore pessimo e digiuno monacale – magari seguito da un’abbuffata in preda alla fame, e conseguente notte in bianco tra mal di pancia lancinanti – ad altre di migliori orizzonti.
Da “Fame d’amore, la mia anoressia” di Chiara Andreola (Città Nuova, 2015)