Ridurre il debito pubblico si può?
Benedetto Gui, ordinario di Economia all'università di Padova, nella prima parte dell'intervista aveva analizzato la nascita del debito pubblico di un paese e prospettato due possiibli soluzioni, sui cui risultati non mancano dubbi: il default e la stampa di nuova moneta. Ma l'economista prospetta anche una terza possibilità che si gioca sui tagli, stavolta ai privilegi
Professor Gui, cosa resta da fare per ripianare il debito?
«C'è un terzo modo di diminuire il debito pubblico è quello banale, penoso e paziente di ripagarlo. Qualcuno lo ha fatto. Nel 1994, quando per l’Italia il rapporto tra debito pubblico e Prodotto Interno Lordo (PIL) aveva raggiunto un picco del 121 %, il dato corrispondente del Belgio era 136%. Ma quella lì, nonostante le disputa tra fiamminghi e valloni, è gente seria: nel 2007, alla vigilia dello scoppio della grande crisi, il rapporto debito/PIL si era ridotto all’84%, mentre da noi era ancora al 103%.
Il caso belga dice che un deciso rientro dal debito è possibile, e anche senza strangolare l’attività economica (il tasso di crescita del PIL belga è stato stabilmente superiore a quello italiano nel periodo in questione). Nel percorso di rientro può svolgere un ruolo anche la vendita di proprietà pubbliche (cosa che peraltro nel caso belga fu piuttosto limitate). Se questa è la via prescelta, c’è un pericolo che va evitato: restare anni e anni sulla graticola di mercati finanziari che non si fidano di noi, e quindi dover pagare per troppo tempo tassi di interesse esagerati.
Dal dopoguerra in poi il debito pubblico italiano si è ridotto in misura significativa in una sola legislatura, quella della corsa all’ingresso nell’euro, quando il rapporto debito/PIL passò dal 120% del 1996 al 108% del 2001. Ciò fu possibile perché i mercati finanziari credettero alla serietà del risanamento della nostra finanza pubblica, e così si innescò un circolo virtuoso fatto di miglioramento dei conti pubblici, quindi di crescita della fiducia sull’Italia, quindi di riduzioni dei tassi di interesse richiestici, quindi di ulteriori miglioramenti del bilancio pubblico, e così via.
Si pensi che, mentre nel 1996 il Tesoro era costretto a pagare un tasso d’interesse del 15% per ottenere un prestito decennale, nel 2001 il tasso era sceso al 6%. Oggi, se non fosse per lo spread (la maggiorazione del tasso di interesse che dobbiamo pagare, appunto, per la nostra inaffidabilità) i tassi di interesse sarebbero bassissimi, e tali resteranno per qualche anno; come a dire che se recuperiamo credibilità il peso degli interessi potrà essere del tutto sopportabile».
Ma quale è la sua posizione sulla liberazione dal debito??
«Come penso si sia capito, ritengo che il debito debba e possa essere ripagato. Un default danneggerebbe indiscriminatamente chi ci ha dato fiducia e farebbe di noi un partner non credibile nell’Unione Europea e nel consesso internazionale. Un’ulteriore ragione è che destabilizzerebbe le nostre banche, che hanno in pancia varie centinaia di miliardi dei nostri titoli pubblici e quindi rischierebbero di saltare (così poi, paradossalmente, lo Stato dovrebbe intervenire con cifre dello stesso ordine di grandezza per salvarle).
È su altri impegni finanziari che invece un po’ di default ci starebbe bene. Penso per primi ai troppi privilegi dei politici, che a norma di legge sono diventati loro diritti, e che finora sono stati intaccati poco e solo per quanto riguarda il futuro. Poi vengono le pensioni d’oro, promesse fatte in modo irresponsabile e poste a carico di innocenti nascituri, che oggi sono giovani dipendenti precari o lavoratori autonomi troppo tassati. Ovviamente non penso ad un default completo, ma a quello che i mercati finanziari chiamano haircut (taglio di capelli), insomma una sforbiciata.
Lo stesso vale per i contratti finanziari capestro stipulati da istituti finanziari troppo furbi con dirigenti di enti locali inesperti o conniventi. Se, fatte tutte le dovute revisioni della spesa, fosse ancora necessario tagliare, nell’ordine toccherebbe alla fascia superiore degli stipendi pubblici, nella quale ricadiamo anche noi prof a fine carriera: se vi sono migliaia di imprese messe sul lastrico dai ritardi di pagamento della pubblica amministrazione, e insieme ad esse decine di migliaia di posti di lavoro a rischio, logica vuole che si tagli, almeno finché dura l’emergenza, dove ci sono margini».
Riusciremo a far questo?
«Come si vede, prima che una questione economica, il debito pubblico è una questione politica: è il segno dell’incapacità di una nazione di ‘cucinare’ e distribuire la ‘torta’ in modo coerente e condiviso. Per questo è da sperare che la campagna elettorale non si giochi su interessi di parte o sulla promessa di facili scorciatoie, ma che lasci intravedere la prospettiva di una comunità politica capace di usare le istituzioni pubbliche per promuovere un benessere solidale e ordinato».