Ricostruire il filo della vita e della speranza
Esiste un diritto a morire, oppure dovrebbe esistere un diritto universale a ricevere buone cure palliative?
«La ragione delle leggi su eutanasia e suicidio assistito sta nel fatto che l’opinione pubblica vive in una gabbia di paura, rabbia e sfiducia riguardo alle cure che potrà ricevere e di come se stessi o i propri familiari moriranno. E il dramma è che questo timore è ben fondato».
Mi ha sempre colpito questa frase di Ira Byock, medico palliativista del New Jersey, in un importante documento del 2015 sullo stato (spesso piuttosto arretrato) delle cure palliative nel mondo.
Come palliativisti lo sappiamo bene: gran parte del nostro lavoro è dedicato a “ricostruire” il filo della vita e della speranza nelle persone che incontriamo, nel passaggio più difficile. Il momento in cui le terapie rivolte alla guarigione hanno fallito e allora si manifestano in pieno “la sfiducia” (non c’è più niente da fare), “la rabbia” (qualcuno ha sbagliato), “la paura” (verranno sofferenze insopportabili).
Rabbia, paura e sfiducia si concatenano e si amplificano. Niente di più facile di soffiare sul fuoco e proporre soluzioni semplicistiche e scorciatoie. Lo dimostrano circa un milione e mezzo di firme raccolte con velocità impressionante a sostegno del referendum per la legalizzazione dell’eutanasia.
Ricostruire invece vuol dire innanzitutto mettersi accanto, in un cammino che può essere lungo, a volte tortuoso, spesso faticoso, ma sorprendentemente capace di pensare ancora a un futuro. La sfiducia richiede una promessa da mantenere (“c’è ancora molto da fare … lo faremo …”).
La rabbia richiede il tempo della rielaborazione (esiste il fallimento, il limite: le domande di rabbia richiedono risposte su un piano diverso, di competenza e serietà autenticamente umana, perché accogliendo la domanda – e non la rabbia con cui si esprime –, nell’”oggi” si può sempre ricominciare)
La paura richiede colloqui aperti, profondi, capaci di parlare senza timori o ritrosie anche di morfina e di sedazione, supportati dalla forza dei tantissimi incontri nella nostra storia di medici e infermieri con persone che “ce l’hanno fatta” a morire con dignità. Fino alla fine, spesso proprio “alla fine”. E con loro le famiglie, gli amici fraterni, le comunità.
Sappiamo che sarà sempre più difficile: Fa più rumore un albero che cade che una foresta che silenziosamente cresce, dice un noto proverbio.
Lo vediamo intorno a noi, nei talk show, nei telegiornali, nelle piazze. Per la politica degli ultimi trent’anni è stato molto più facile accendere la paura e cavalcare la rabbia che argomentare, analizzare, costruire il futuro in prospettiva generazionale.
Lo stiamo sperimentando in questi terribili due anni di pandemia: quanta negazione, figlia della paura, nella presunta “libertà di ammalarsi” …e di far ammalare gli altri. Vedere un’analogia non è una forzatura: i meccanismi comunicativi nascono fondamentalmente dallo sgomento di una cultura individualistica di rimozione della malattia e della morte, messa di fronte al limite dell’ineluttabile e dell’imprevedibile. Per questo sembrano molto simili, pur in manifestazioni apparentemente così diverse, i banchetti di raccolta firme per l’eutanasia e i cortei di protesta no-vax.
Intanto “senza far rumore”, continuerà il lavoro quotidiano delle equipe di cure palliative nelle case e negli hospice e dei medici e infermieri nei reparti Covid. Ci saranno ragazzi e insegnanti che troveranno la forza di ripartire tra una Dad e una quarantena, ci saranno famiglie che anche dopo i lutti più dolorosi sapranno stringersi e ricominciare a vivere.
I prossimi saranno mesi di scelte: dentro o fuori dalla gabbia? Dipenderà anche da ciascuno di noi, da quanto saremo capaci di costruire rapporti di cura più forti della paura e della rabbia: per un’etica della reciprocità di cui già parlava un bel libro di Fabrizio Turoldo di alcuni anni fa, Bioetica e reciprocità, che oggi appare quanto mai attuale e necessaria.
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Su questo tema vedi anche il video intervista a Marta De Angelis: Come morire