I ricordi di un uomo “libero e fiero”
Il 25 aprile, festa della Repubblica, è una giornata ricolma di gratitudine verso quegli “uomini e donne liberi e fieri”, come li ha definiti il presidente Sergio Mattarella, che sono le radici del nostro Paese. Tra quegli uomini, per lo più sconosciuti, vi era anche mio padre, Giuseppe Zurlo.
«La mia guerra era contro la Germania di Hitler, perciò mi aspettavo anche una morte in prigionia. Avevo una grande fede, pregavo e offrivo tutte le mie sofferenze a Dio. Per me essere stato artefice della nascita di una nazione italiana libera e democratica ha un grande valore perché – ha raccontato mio padre – ho rischiato anche la vita per la sua rinascita, compiendo sempre il mio dovere come soldato e come cittadino. Ho accettato anche diversi incarichi pubblici per servirla meglio».
Di lui ho scritto alcuni giorni fa al ministro Salvini in una lettera aperta: «Mio padre, Giuseppe Zurlo, ha trascorso un lungo periodo della sua giovane vita nei campi di concentramento tra la Germania e la Polonia per garantire la libertà di coscienza e democrazia nel nostro Paese. La Costituzione Italiana e la Nazione sono nati da uomini e donne che avevano pensieri diversi ma si trovavano uniti, dopo l’esperienza terribile della guerra, sul valore assoluto di ogni uomo».
Il valore “non negoziabile” dell’uomo ancora oggi viene umiliato e schiacciato, messo a repentaglio da ragionamenti ammantati di utilità, ordine, benessere. Il valore che accumuna tutti gli uomini: tra queste righe, oltre a tanti italiani, il ricordo di mio padre ad un capitano tedesco che «pagò con la vita l’aver salvato quella degli ufficiali italiani». La grandezza dell’uomo che sa spezzare la ragnatela della vendetta con la capacità e il coraggio di perdonare.
Nei primi tempi dal rientro dalla prigionia, tanti politici di vari partiti chiesero al papà i nomi di chi aveva aderito al nazifascismo per interrompere la detenzione. Il mio papà non fece mai quei nomi, nemmeno a noi figli, perché sosteneva che chi era a casa non poteva giudicare chi, in condizioni estreme, aveva ceduto. La seguente intervista, del 2005, l’ho realizzata io stessa a mio padre assieme agli alunni della scuola media IMI di Istanbul a cui insegnavo. Spero ci aiuti a illuminare la mente e a far scattare nei nostri cuori, diventati spesso come casseforti, la cifra per aprire la combinazione di sicurezza ed essere veramente liberi.
Quando è stato deportato nei campi di concentramento?
Sono stato deportato nei campi di concentramento il 13 settembre 1943, dopo essere stato fatto prigioniero a san Pietro del Carso. Il mio corpo era la Guardia della Frontiera.
In quali campi è stato deportato?
Prima in Polonia a Proski, Olstynek, Deblin Irena, Ari Lager di Deblin, Biala Podlaska e poi in Germania a Bremenvorde, Sandbostel, Wietzendorf, Bergen. Nei campi di concentramento sono stato dal 13 settembre 1943 al 17 agosto 1945. Sono stato trasferito sempre con i treni, in carri per il bestiame, senza scarpe, senza la cinghia dei pantaloni, seduto stretto sul fondo del vagone, senza latrina, ma in cambio con un secchio senza coperchio, messo in un angolo del carro e si era più di 40 ufficiali! Nei campi di concentramento sono stati internati oltre seicentomila italiani tra militari e civili. I morti nei lager, in vari modi, furono 60mila.
Come è stato trattato?
Sono stato trattato come uno schiavo, senza nessun riguardo come persona. Mi chiamavano, come gli altri italiani, maiale! Ho patito molta fame e freddo.
Come fa dopo tanti anni a ricordarsi tutto quanto?
È dovuto al fatto che ho preso appunti in un quadernetto che ho trovato durante il viaggio di quattro giorni per arrivare a Proski in Polonia. Durante questo viaggio che non sembrava finire mai l’unica cosa che sono riuscito a vedere sul frontale di una stazione ferroviaria sono state queste parole: “Die roeder mussen rollen fur den zieg (le ruote devono girare per la vittoria)!”.
Potrebbe raccontarci una sua tipica giornata?
Al mattino si doveva uscire dalle nostre baracche per il primo appello che durava anche due ore, se qualche ufficiale era rimasto a letto perché ammalato. Quando il graduato tedesco iniziava a contarci dovevamo stare sempre sull’attenti. Se i conti non tornavano ricominciava la conta da capo gridando come il famoso capitano Pinkel, che i sottoufficiali imitavano gridando pure loro. Finito l’appello iniziava la distribuzione dei viveri a secco: qualche patata, un piccolo pezzo di pane nero, un po’ di zucchero e margarina. Anche le bucce delle patate rimaste nel fondo del contenitore venivano divise. Il tutto era pesato al millesimo con una bilancia fatta da noi. Verso mezzogiorno arrivava la sbobba calda fatta di rape, quelle che da noi si usano per i maiali. Erano piuttosto acide. Prima di sera un altro appello. Se l’aria era gelida molti ufficiali uscivano con la coperta sulle spalle o sulla testa. I tedeschi infierivano contro di noi allo scopo che chiedessimo di andare a lavorare, ma nessuno di noi cedette. Durante la bella stagione ci si trovava nelle baracche per ascoltare lezioni di filosofia, storia, lingue, letteratura ecc., fatte da specialisti. Eravamo tutti diplomati e laureati. Molti erano professori universitari o scrittori. A Wietzendorf si andava nel bosco a raccogliere la legna da mettere nella stufa, accompagnati dal vecchio capitano Lohse che pagò con la vita l’averci aiutati. Alla fine della guerra, il 17 aprile del 1945 fu impiccato a un fanale del campo da un gruppo di ragazzi della Hitlerjugend. Noi lo chiamavamo capitan armistizio. Era cattolico e molto buono.
In quel settembre 1943 in quanti avete detto di “no”?
In quella occasione su ventun ufficiali del reggimento dicemmo di “no” in venti. Ma la richiesta di adesione all’esercito tedesco continuò durante tutta la prigionia e colui che avesse aderito avrebbe avuto subito lo stesso trattamento del soldato tedesco e la possibilità di tornare a casa in licenza. Il 10 gennaio ’44 venimmo portati, sempre in treno, a Biala Podlaska, situata a nord est di Deblin, qui rimasi fino al 20 marzo ’44. All’arrivo faceva molto freddo ed ebbi molta fame. Incominciò subito il martellamento della propaganda nazifascista, fatta di promesse, di minacce, di insulti. Eravamo circa 2.400 ufficiali. I fascisti non ci davano respiro e cominciarono le adesioni alla Repubblica Sociale di Salò, tra capodanno ed Epifania aderirono tutti meno 145, tra i quali anch’io. Era il 6 gennaio 1944.
Lei ha partecipato ad altre guerre?
Non ho mai partecipato a un’altra guerra se non a quella del 1940-45, che il duce ha dichiarato il 10 giugno del 1940 contro la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti d’America, che io ho giudicato una decisione da pazzi! Al mio ritorno fui accolto trionfalmente e con tanta gioia dai genitori, fratelli, cugini e zii. Non solo i parenti mi aspettavano ma anche molti amici. Tre dei quali purtroppo non c’erano più: uno fu rapito dai repubblichini di Salò, uno morì nel terribile bombardamento di Treviso e il terzo fu fucilato a Padova perché partigiano.
[1] Vedi Avvenire, Sripta manent, del 20 aprile 2019