Ricordando un amico

Donato Michini, un amico con cui imparare a vivere la carità. Una storia di amicizia, l'inizio di un percorso di consapevolezza e spiritualità.
Ph EV/Unsplash
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Donato abitava all’inizio di Corso Secondigliano, sul lato sinistro venendo da piazza Capodichino, al pianterreno di un vecchio palazzo dall’intonaco scolorito e scrostato, tra un negozio di Sale & Tabacchi e un’agenzia di Pompe Funebri.

L’alloggio fungeva anche da bottega di ciabattino, ché tale era suo padre: un tipo minuto e calvo, che attraverso una porta a vetri di foggia antiquata appariva da mattina a sera curvo sul suo banchetto a riparare scarpe, munito di lesina, treppiedi, trincetto, fustelle, martello, pezzi di cuoio, tacchi e quant’altro. Anche in pieno giorno, una fioca lampada gli pendeva sul capo, avendo quello stanzone come uniche fonti di luce l’ingresso che dava sul Corso e, nel retrobottega, una finestrella munita di sbarre come in una prigione.

Una volta Donato m’invitò in quell’ambiente semibuio per presentarmi al padre, che per un attimo interruppe il suo lavoro, posò gli attrezzi sul banchetto e con un sorriso mite e rassegnato mi salutò: «Piacere, Michini», per poi dedicarsi di nuovo a quelle sue riparazioni infinite. Durante la mia breve sosta lì feci in tempo a notare l’esistenza di un soppalco dove, dietro una tenda, immaginai i letti dei famigliari, e anche a scambiare un saluto con la sorella del mio amico, Annamaria, una ragazza timida e graziosa come una gazzella, mentre scendeva per la scala che lì sopra conduceva.

Di carattere estroverso, gioviale, Donato spargeva buonumore con le sue risate clamorose. Generoso poi (quel nome gli stava a pennello!), nella vicina parrocchia dell’Immacolata dedicava il tempo libero dagli studi ai “pre-Ju”, gli “aspiranti” di Azione cattolica adolescenti, animando le loro riunioni e, di tanto in tanto, in un campetto lì vicino, lasciandoli sfogare in tumultuose partite di calcio. A distanza di tanti anni, rivedo la scena con Donato congestionato e stillante sudore mentre fischiava (era lui l’arbitro!) per qualche fuorigioco… senza peraltro arrabbiarsi mai. Così diverso da me che cominciavo appena ad uscire dal protettivo guscio famigliare, ammiravo di lui la modestia, la franchezza, l’attitudine positiva e la capacità di farsi benvolere da tutti.

Una volta m’invitò con altri nostri coetanei della parrocchia a Posillipo, in una spiaggetta libera dove era permesso bagnarsi, convinto di potermi insegnare a nuotare. Io ero certo del contrario, ma per farlo contento mi azzardai col suo aiuto nel tratto di mare più vicino a riva. Ma appena, con terrore, mi accorsi di non toccare più il fondo, come una patella allo scoglio mi avvinghiai a lui, che esclamò: «Calma, non succede niente… guarda un po’: mi hai pure graffiato!», continuando però a sorridermi per incoraggiarmi. Me ne tornai un po’ umiliato all’asciutto, accontentandomi di vederlo sguazzare felice insieme agli altri.

Ricordo una sera, noi due seduti sui gradini dell’Immacolata con altri amici. Mentre io ascoltavo senza interesse quello che loro dicevano (niente d’importante del resto), notavo i tentativi di Donato di far deviare il discorso su qualcosa di meno superficiale.

Intanto il sole era sparito dietro l’edificio della scuola elementare “Ludovico Ariosto” e in piazza Capodichino il traffico dei veicoli attorno alla rotonda dell’obelisco era diventato più intenso. Un certo nervosismo si avvertiva nell’aria: stanchezza per la giornata di lavoro, fretta di tornarsene a casa… E noialtri occupati a discutere e scherzare nel nostro cantuccio.

Da dove arrivò, ad un tratto, quel tipo male in arnese e di età indefinibile? Sfiorò barcollando il nostro gruppo, poi cominciò ad allontanarsi senza una direzione precisa. Certamente era ubriaco. Qualcuno di noi lo indicò ridacchiando al proprio vicino, altri nemmeno vi badarono. Donato ed io ci guardammo negli occhi, quindi ci appartammo per una breve consultazione: «Che facciamo? Non possiamo lasciarlo così, può finire sotto un’auto». «Hai ragione». «Sentiamo dove abita…».

Nessuno degli amici fece caso alla nostra scomparsa. Raggiungemmo il nostro uomo, che procedendo a zig zag aveva appena imboccato la via del Perrone, il popolare mercatino a cielo aperto di lato alla chiesa. Quando si accorse di noi si arrestò con un’espressione vacua. Puzzava di vino. Cercammo di fargli capire che eravamo disposti ad accompagnarlo a casa e alla fine riuscimmo a sapere che abitava piuttosto lontano, verso il centro-città… Com’era arrivato fin lì?

Ormai non potevamo più tirarci indietro. «L’unica cosa da fare è prendere un taxi», concludemmo dopo un rapido esame delle nostre finanze. Neanche cinque minuti e ne avvistammo uno, cui segnalammo di fermarsi. Fatto sorprendente: l’autista accettò di prendere a bordo l’ubriaco. «Ci porti in via…».

Cominciava a cadere una leggera pioggia che rigava i finestrini. Lo sconosciuto, dopo aver borbottato qualcosa, s’era assopito in mezzo a noi due, rimasti in silenzio per lasciarlo tranquillo. Nel taxi s’era diffuso un sentore di una cantina. A contatto con il suo giubbotto non molto pulito, inizialmente provai un senso di disgusto, ma ne ebbi subito vergogna. Mi tornò in mente: «Qualunque cosa avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli…». Dall’altro lato, Donato mi lanciava occhiate d’intesa: stava pensando alle stesse cose?

Il taxi intanto s’era addentrato in strade semideserte. Giunti alla meta, pagammo l’autista e aiutammo il nostro uomo a uscire dal veicolo; ma già sembrava meno malfermo sulle gambe. «È qui che abiti?», gli chiedemmo davanti ad un portone semiaperto. Dall’interno filtrava un po’ di luce, sufficiente per non incespicare nei gradini della scala. «Sì… sì», borbottò. «Ti aiutiamo a salire?». «Grazie, sto meglio». E sparì dietro il portone.

In cerca di un bus che ci riportasse a casa, Donato ed io ci avviammo sotto la pioggia, meditabondi. S’avvertiva un’aria diversa tra noi, qualcosa che ci faceva sentire più vicini, fratelli.

«Ci vediamo domani a messa?». Non dimenticherò mai questa frase con cui Donato, inconsapevolmente, cambiò il mio modo di intendere il rapporto con Dio. Al contrario di me che mi limitavo alla messa domenicale, il mio amico era solito ricevere l’Eucaristia tutti i giorni. “Domani” però era un giorno feriale… Quando lui se ne rese conto, pensò un poco, poi: «Eppure Gesù ne sarebbe contento».

Principiante nel cammino spirituale, fino a quel momento avevo considerato ragionevoli i miei “impedimenti” ad un numero più frequente di Comunioni. E sentirmeli ribaltare con tanta sicurezza da uno di cui avevo assoluta fiducia, aveva il sapore di una rivelazione!

Non conoscevo, all’epoca, quella frase straordinaria dell’Apocalisse: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me». Forse neanche Donato l’aveva letta o sentita, eppure senza ricorrere a citazioni scritturistiche era riuscito a farmi intuire il desiderio di Dio nei confronti delle sue creature.

Da allora, cercai di non mancare mai alla messa quotidiana. Donato conobbe l’effetto di quelle sue parole solo molti anni dopo, quando in uno dei miei ritorni a Napoli, dove non vivevo più da tempo, ebbi modo di raccontarglielo. Si era sposato, aveva avuto due figli, si avviava a diventare calvo come il padre… ma d’animo non era cambiato. Il ricordo di lui rimane associato a ciò che mi disse quella volta. Un ricordo colmo di gratitudine.

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